Li ammazzarono, l’Ora, il giornale! | ‘La notte della civetta’ di Melati

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26 Aprile 2020, 15:20

4 min di lettura

“U zitu ammazza a zita, l’Ora, il giornale!”

Un’eco scoppietta repentinamente nella memoria, torna nei passages di Piazzale Ungheria nell’efficace incipit del libro di Piero Melati per scivolare bruscamente in una domanda che, invece, lapida il ricordo: “Chi lo sa in che momento si era fottuta la Sicilia”.

E cade un silenzio che prepara il lettore a una veglia copiosa di sciagure e di curiosità.

Il personaggio in questa strana storia, come chiaramente indica lo scrittore, è l’Autore. Senza nome, un testimone d’eccezione, capace di raccontare da solo.

Così, falsamente rassicurati da questa certezza, si scivola, poco dopo, in un altro interrogativo, un affondo più insidioso.

“In quali istanti Palermo è naufragata, dapprima in un grosso equivoco e poi in una specie di libro Cuore?”

E si scivola in un silenzio più disadorno in cui è necessario fare una sosta. Non so, sorseggiare un vino o fumare con calma la sigaretta già accesa perché abbiamo tutti tentato di formulare un uguale domanda in qualche parte della nostra coscienza, ma mai da renderla tanto lucida e diretta.

Bastano pochi minuti, per poi riprendere un viaggio d’inchiostro dal percorso tanto intimo quanto pubblico, capace di attraversare la storia dell’isola.

Piero Melati rapisce con uno stile narrativo secco che coniuga la sua tempra di giornalista e di poeta, utilizzando entrambi i toni con sapiente e spontanea coerenza.

Il nido della sua parola è asciutto, temprato dai fatti, ma tutto irrorato da un senso profondo di malinconia, il sentimento più nobile dei siciliani.

Il romanzo, perché di romanzo si tratta, seppure i fatti narrati sono tutti di cronaca, spesso violenta e dolorosissima, viene battezzato dalla morte, come di buona tradizione. E, più precisamente, da ottomila cadaveri ‘allineati e ghignanti’ dei Cappuccini di Palermo, tenuti a guardia da un cadavere portinaio che non riesce interamente a svolgere il suo compito, né a custodire interamente la vita del protagonista.

Nec sine te, nec tecum vivere possum: questo epitaffio, dice Melati, contiene il senso della difficoltà ad essere siciliano e, anche, quello che l’Italia sente verso la Sicilia e viceversa.

Ho sempre creduto che l’isola imponga al figlio doglie di doppia natura: da un canto, nel suo ventre, lo costringe ad elaborare costantemente pensieri di effimera e solare eternità per poi spingerlo verso il mondo senza protezione di illusioni, orfano di un amore troppo vivo per essere credibile a chiunque non abbia visto la luce in questa terra.

Il siciliano, insomma, è uno straniero e, al contempo, abile sovrano della propria storia intima e sociale.

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Di questo sigillo schizofrenico racconta Piero e lo fa in maniera tanto perfetta da illuderci di potere ricucire perfino le nostre intime contraddizioni.

Parole di sutura e di macelleria che può generare solo un intellettuale siciliano.

Paziente nella ricostruzione degli eventi con il coltello asciutto della memoria riporta la sua isola, che troppo isola non è come scrive Borgese, in una visione cinica e onirica. Dunque, nella sua perfetta dimensione storica.

Poi comincia a fluire “una Palermo dove tutto era possibile con abominevoli esperimenti a cielo aperto”.

Scorrono fiumi di droga nelle vene della capitale, omicidi di mafia, poteri nerissimi sotto la luce tersa di una “Sicilia aridissima”.

Non si perde un solo passaggio nel suo puntuale narrare di giornalista che, come solo a Palermo accade, inizia a far gavetta dalla cultura per completare la propria carriera professionale da cronista.

Nessuno evento sembra fare chiasso, passato al setaccio da una testimonianza fisica e fedele e da un’anima colta che collega ogni caduta del popolo siciliano ad un aggancio intellettuale. Molte le citazioni argute e, molto più determinanti, le poetiche conclusioni logiche.

Piero Melati non immora nella storia, ma ne estirpa il carattere: l’estremo nichilismo, l’immobilità, gli abbagli scambiati per fatalità, l’amarezza, il senso dell’invincibile e dell’eterno fino all’indubitabilità dell’esistere.

“Era estate anche quando pioveva e faceva freddo in questa vita siciliana mutante, il periodo più bastardo”, un’estate simbolica rievocata da un uomo che ha sulla pelle tre morti: la prima quella della sua generazione, la seconda quella degli eroi, la terza quella in cui “siamo morti dentro tutti noi che potevamo raccontare”.

“Palermo non vuole parlare di se stessa fino in fondo: è un labirinto di tabù, un percorso di lapidi, corto circuito perverso” – ancora scrive. “Ci vorrebbero i letterati con l’arte della poesia, almeno a lasciare intendere, ad evocare. Ma letterati non ce ne sono. Siamo ancora fermi a Leonardo Sciascia, agli anni sessanta.”

Cosa vuol dire Melati in questa evidente provocazione? Che non esistono uomini di cultura in Sicilia?

No. Denunzia l’incapacità degli intellettuali contemporanei ad interrogarsi e ad interrogare la società civile su “che luogo è mai la Sicilia”.

E non vale più il detto Mutu tu, mutui u, mutu cu sapi u iocu perché come avverte Sciascia, ancora citato nel libro, “quando si perdono di vista i fatti, tutto può accadere.”

Occorre, insomma, che “anime insanabilmente vulnerate” così come appellava la sua Giovanni Falcone dopo gli omicidi di Montana e Cassarà, ritornino a chiedersi “se può essere cambiato o no il maledetto finale de Il giorno della Civetta e se la Sicilia che, sembra fottuta da sempre, si riappropri non soltanto dell’inconscio che rappresenta in tutto il Paese, ma anche del nerbo sapiente e critico della nostra storia.

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26 Aprile 2020, 15:20

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