Cronaca

L’intelligenza umana è minacciata: perché siamo sempre più stupidi

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03 Dicembre 2023, 07:01

4 min di lettura

Non è semplice spiegare al grande pubblico ciò che è sotteso al nostro presente digitale. Esistono nuovi linguaggi e nuovi paradigmi che hanno bisogno di una guida per essere interpretati. Quale intento divulgativo potrebbe mai abbracciare quel “tutto” cui la rivoluzione tecnologica ha dato l’abbrivio?

Quando l’uomo era prevalentemente essere pensante, e non mero destinatario/fornitore di dati, uno straordinario intellettuale del secolo scorso, Micheal Foucault, introdusse la nozione di dispositif, insieme eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, norme sia civili che penali che amministrative, concetti scientifici, filosofici, etici; la rete dei dispositivi, pur non discendendo da un preciso potere che la formi e la gestisca, influenza le nostre scelte al punto da chiedersi quale sia il nostro reale ambito di libertà.

Anni dopo la scomparsa di Foucault, il filosofo Gilles Deleuze tornò a riflettere su quel concetto polimorfo che attraversa epoche storiche e inframezza saperi, mettendoli in rapporto con l’attualità, sintetizzando magistralmente: “Apparteniamo a dei dispositivi e agiamo in essi. La novità di un dispositivo rispetto a quelli precedenti, la chiamiamo la sua attualità, la nostra attualità. Il nuovo è l’attuale. L’attuale non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo … In ogni dispositivo, bisogna distinguere ciò che siamo (ciò che non siamo già più) e ciò che stiamo divenendo” (Che cos’è un dispositivo ?, 2009).

Immergersi nella attualità e riordinarla dal di dentro. Sembra facile, mentre corriamo verso un mondo ricco di potenzialità quanto di incogniti pericoli, nel quale l’elemento che coniuga reale e virtuale è un incessante accumulo di informazioni, e l’incidenza crescente dell’intelligenza artificiale determina che la stessa parola, dispositivo, abbia dismesso il connotato di enunciato normativo per assumere in modo prevalente il significato di congegno. Intanto, tecnologie agiscono su altre tecnologie per mezzo di tecnologie. E non è un calembour: vi sono macchine cui non serve la presenza umana per comunicare tra loro.

Ormai, è tutto un bit? John A. Wheeler pose per la prima volta l’interrogativo nel 1989, chiedendosi se tutto si riducesse al binary digit, la cifra binaria unità di misura della quantità di informazione. Il pioniere della gravità quantistica, convertitosi alla teoria dell’informazione, si disse convinto che l’applicazione di questo paradigma alla fisica teorica potesse rivoluzionare completamente gli studi del settore. It from bit implica che ogni oggetto del mondo fisico possieda una sorgente e una causa immateriale e che ciò che chiamiamo realtà scaturisca dal porre domande binarie – sì/no – e registrare le risposte sui nostri dispositivi: “Le cose fisiche sono in origine informazione teorica e questo è un universo partecipativo”.

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L’individuo ha assunto nella società contemporanea una natura “informazionale”: siamo esseri che incessantemente informano e s’informano. Tra bufale, fake news e pillole di sapere gugoliane, di certo più colti non siamo. Almeno, essere più informati equivale a essere più intelligenti? Diversi studi rivelano che le ICT (Information and Communications Technology) ci stiano superando in potenza intellettiva, mentre l’intelligenza umana è in diminuzione. Un report di DW racconta come l’umanità che diveniva smarter and smarter ora ha invertito il trend e sembra dumber and dumber. Siamo sempre più stupidi. Qual è il motivo?

Un passo indietro. Nel 1984, lo psicologo James R. Flynn scoprì che i valori di intelligenza misurati in numerosi Paesi erano in continuo aumento dall’inizio del XX secolo. Questo fenomeno, risultato di un più ampio accesso all’istruzione, divenne noto come “effetto Flynn”. Nel nuovo millennio, gli statistici norvegesi hanno scoperto che l’effetto Flynn non funziona più. Anzi, alcuni Paesi hanno registrato un calo dei punteggi del QI. Perché ci stiamo rimbecillendo? Molti neurobiologi e psicologi sospettano che la digitalizzazione e i cambiamenti nel panorama dei media abbiano un impatto negativo sul quoziente intellettivo. È dimostrato che l’aumento del tempo trascorso davanti allo schermo e la costante connessione tramite smartphone riducano la capacità di concentrazione. Il cervello è semplicemente sovraccarico. Abbiamo sfruttato al limite le nostre capacità cognitive, legate al numero di neuroni del nostro cervello che, pur formato da circa ottantasei miliardi di neuroni, ci piaccia o no, è limitato.

Se ci beassimo di teorie complottistiche, sarebbe facile pensare che la questione non sia che le ICT stiano diventando più intelligenti, rendendoci al contempo più stupidi, ma che avendo ormai la supremazia nella nostra esistenza, provino ad asservirci. D’altra parte, ricordiamo che il plot della “rivolta dei robot”, col sopravvento delle macchine ormai ribellatesi al loro ideatore e costruttore, è uno dei prediletti della fantascienza. Se può ancora dirsi fantascienza.

Il problema dell’uomo, non più dominante in un universo un tempo alla sua portata, non risiede nel progressivo potenziamento (e “potere”), delle ITC, quanto nel ridefinire la propria identità, prima di rimodulare ciò che ormai (e fa una bella differenza) non è più l’utilizzo, ma l’interazione con i dispositivi. Un allarme esistenziale preconizza come siamo votati alla solitudine, mentre da folli seguiamo le lusinghe del progresso a tutti i costi rinunciando, per il bagliore d’un rettangolo biancastro, alla vastità della luce stellare, lasciando, ignavi, che si scombinino i piani della storia.

Una azione frutto del caos, piuttosto che di una strategia, perpetua la fuga; credere nel niente, tuttavia, è già una sconfitta. Siamo al principio del non ritorno. Riassumere il controllo di sé non è una mera operazione culturale: è ri-orientare la mente verso l’uomo e il “suo” mondo. Quanto poi la questione sia rilevante, è interrogativo consegnato alle facoltà del lettore.

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03 Dicembre 2023, 07:01

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