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“Lo Stato trattò con Brusca, ma processa i carabinieri”

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07 Giugno 2021, 16:24

3 min di lettura

La legge sui collaboratori di giustizia va cambiata, è anacronistica ed evidenzia una contraddizione con il processo sulla c.d “trattativa”.

La scarcerazione di Giovanni Brusca avvenuta nei giorni scorsi ha suscitato più di una polemica dando luogo a diverse prese di posizione sull’attualità della legge sui collaboratori di giustizia. La stessa, come è noto risale al ’91, grazie all’impegno profuso dai magistrati Giovanni Falcone e Antonino Scopelliti, e venne modificata nel febbraio 2001 con il permanere delle riduzioni già previste per il collaboratori, nonché dell’assegno di mantenimento erogato dallo Stato.
Per quale motivo, mi sono chiesto in questi giorni, una gran parte dell’opinione pubblica ha fortemente stigmatizzato la liberazione del collaboratore Brusca avvenuta anche e soprattutto in virtù della sopra citata legge voluta dal Giudice Giovanni Falcone?

“Non omne quod licet honestum est” dicevano i latini, significando che non tutto quello che giuridicamente è consentito è onesto sotto il profilo morale. In detta frase, probabilmente, risiede la risposta. Si tratta di una legge quella sui collaboratori di giustizia avvertita oggi verosimilmente come non più necessaria, proprio in quanto nata in un particolare periodo emergenziale, e questa è forse la ragione perché la gente si indigna, facendo prevalere la irredimibile mafiosità del soggetto che ne beneficia rispetto ai risultati-innegabili- che egli ha offerto allo Stato con la sua collaborazione all’interno di un rapporto sinallagmatico fondato sul “do ut des”.

Quella legge a mio avviso è anacronistica e andrebbe ripensata e cambiata. non soltanto perché è nata in un contesto emergenziale, non solo perché dalla sua emanazione ad oggi sono trascorsi trent’anni, non soltanto perché da allora ad oggi gli strumenti e i mezzi d’indagine a disposizione della magistratura grazie alle sopravvenute tecnologie si sono di gran lunga arricchiti e perfezionati ma anche e soprattutto perché detta legge, nella sua attuale formulazione, evidenzia una palese contraddizione.

Difatti nello stesso momento storico in Italia si continua da un lato a “premiare” chi ha raggiunto un accordo con lo Stato in termini di fattiva collaborazione, riducendogli la pena e conferendogli altri benefici. Dall’altro, si processano alcuni esponenti delle istituzioni che avrebbero veicolato verso altri pezzi dello Stato le richieste dei boss al fine di pervenire ad un accordo tra lo Stato stesso (che alleggerì il carcere duro) e “Cosa Nostra” che non proseguì nel suo progetto stragista.

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Mi riferisco al processo sulla c.d. “trattativa” pendente innanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Palermo. In questo , come è noto sono imputati oltre che i mafiosi, anche esponenti delle istituzioni che avrebbero cercato e ottenuto un accordo con lo Stato italiano al quale avrebbero riferito le richieste di esponenti di “Cosa Nostra”, con lo scopo di porre fine alle stragi.

Anche qui, dunque, (l’ipotesi di) un accordo tra Stato e mafia, con l’intera consorteria (e non con il singolo mafioso) che diviene oggetto di un processo penale all’interno del quale non viene distinta la figura di chi commetteva i crimini, da chi avrebbe trattato da intermediario per farli cessare.

Orbene a prescindere dalla corretta individuazione del reato contestato ai citati soggetti “Violenza o minaccia a un corpo politico o amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”, oggetto peraltro di un noto dibattito giurisprudenziale, a prescindere dalla correttezza giuridica dell’assimilazione degli imputati che avrebbero posto in essere la trattativa addirittura con le figure e le imputazioni ascritte ai mafiosi, non può non evidenziarsi che, ove venga accertata definitivamente l’esistenza di una trattativa, sicuramente gli artefici della stessa non hanno di certo mai commesso i crimini di chi, ad oggi, beneficia invece della legislazione premiale prevista per i collaboratori di giustizia.
Questi ultimi, dunque, vengono scarcerati gli altri processati.

In un primo caso un accordo tra lo Stato e un singolo collaboratore in virtù di una legge di trent’anni addietro apre le porte della prigione per lo stesso. Nell’altro, un presunto accordo tra Stato e mafia viene tradotto in un reato e diventa oggetto di un procedimento penale a carico di chi lo avrebbe posto in essere.

Avv. Giovanni Di Trapani
Responsabile Centro Studi Giuridici della Camera Penale di Palermo.

Pubblicato il

07 Giugno 2021, 16:24

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