“Lo Zen, gli ammazzati, la droga | Così mia madre mi ha protetto”

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22 Ottobre 2019, 18:43

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PALERMO– “Pace e bene, fratello”. Ciao Loris, perché non ci racconti una storia di speranza che viene dallo Zen, ancora oggi protagonista della cronaca nera dopo il blitz in calce allo spaccio? Una storia bella, per piacere, anche non semplice, per non avere sempre il cuore pesante, quando si parla dei casermoni e delle anime innocenti intrappolate laggiù.

E frate Loris D’Alessandro, francescano, cappellano del carcere Pagliarelli, risponde: “D’accordo, ti racconto la mia”. E comincia: “Sono nato allo Zen Uno. Ero un ragazzino vivace e i ragazzini vivaci laggiù, come in altri posti, giocano per strada, magari a piedi nudi, rincorrendo il pallone. Quando giocavamo, io e miei tanti fratelli, mia mamma, Giovanna, stava affacciata alla finestra e guai se non rientravo puntuale, se ritardavamo di dieci minuti”.

“Mamma è rimasta vedova presto, io, praticamente non ho conosciuto mio padre. Era infermiera al Civico e andava a lavorare in autobus, ogni volta una traversata. E’ stata lei a proteggerci dalle cose tinte, con il suo esempio, con il suo comportamento. Sono cresciuto come tanti, un po’ selvaggio, ma sono stato sempre un buono. Da ragazzino non credevo in Dio, poi sono entrato in parrocchia a diciotto anni e ho compiuto il mio cammino. Padre Gallizzi e padre Garau sono stati fondamentali, come le suore francescane del Vangelo. Ho incontrato Dio e sono diventato un religioso”.

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Prende fiato, Loris, come il ragazzo che era, alla fine della corsa dietro un pallone di stracci. E continua: “Ho visto i morti ammazzati per strada nel mio quartiere. Ho visto scorrere il sangue. Ho visto scene violentissime di fazioni che si scagliavano contro altre fazioni. Ho visto tutto. Ho visto lo spaccio. Altri ragazzi buoni come me sono finiti male, purtroppo. Lo ripeto: devo dire grazie a mamma che mi ha protetto. E voglio aggiungere un particolare che forse non farà piacere, però è la verità: lo Zen è abbandonato. Aumenta la sensibilità, c’è tanta bella gente che vorrebbe essere aiutata ma non ha occasioni perché le istituzioni sono assenti. Ho un piccolo appello da consegnare: l’invito allo studio e al lavoro onesto. Mi raccomando, ragazzi”.

E c’è il carcere, lo sprofondo che trasforma la colpa in pena, impossibile evitare certi incontri. “Sì, certo – dice Loris – nelle mie visite in cella ho trovato persone che erano con me per strada. Altri sono morti di overdose. A un ex compagno di giochi ho dato uno schiaffo, più morale che fisico: ‘E tu chi ci fai cca?‘, gli ho chiesto. Mi ha guardato in silenzio per un po’ e non ha risposto”. Cosa puoi rispondere quando la felicità di ieri è scomparsa col pallone dentro un campetto che non ricordi più?

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22 Ottobre 2019, 18:43

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