14 Ottobre 2018, 15:34
4 min di lettura
Era il febbraio del 2012, se la memoria non inganna. Palermo conobbe davvero Matteo Renzi, semplice sindaco di Firenze, calato dall’Arno per sostenere Davide Faraone in lizza per le primarie comunali.
E a Palermo piacque quel giovanotto che mostrava i modi spicci di Fonzie, ma l’aria da bravo ragazzo di Ricky Cunnigham. Sarebbero stati giorni felici (Happy Days) per tutti (oh yeah). Sul palco del teatro Golden una città fiera e sminuzzata, nei suoi protagonisti concreti e simbolici, già recitava il futuro. Si alternarono il preside della scuola di frontiera, l’artista del disegno, l’imprenditore valoroso, il coraggioso migrante… Accorsero per farsi vedere e per dare manforte alla ramazza promessa dal Rottamatore dei rottamatori.
Era il maggio del 2014, se il ricordo non mente. Matteo Renzi tornò a Palermo da presidente del Consiglio, alla vigilia di un voto europeo che sarebbe risultato trionfale per il suo Pd. La piazza traboccava di folla intorno al Fonzie-Ricky piombato come un conquistatore dalla Toscana. I selfie si sprecarono. Un popolo andò, ascoltò, si entusiasmò e tornò a casa, con il cuore ricolmo di speranza Sì, rottamazione era la parola magica. Sull’inerzia di quel verbo, perfino la reietta Sicilia avrebbe cambiato verso e sarebbe diventata, finalmente, bellissima, prima ancora dell’avvento di Nello Musumeci.
Era il febbraio del 2015, se la reminiscenza non fallisce il bersaglio. Alle Officine Sandron si tenne la sicula Leopolda, al netto dell’assente Matteo. L’aria non era più quella illibatissima dei raduni iniziali. Il Pd scontava, soprattutto, la contraddizione di Rosario Crocetta mal sopportato dai ‘suoi’ (a cominciare proprio da chi quella iniziativa l’aveva organizzata), eppure sostenuto a denti stretti, poiché la virtù non è mai necessità. Fu egualmente una kermesse riuscita, una solida esercitazione ai margini del potere, il riflesso di una prospettiva che nessuno, allora, avrebbe immaginato catastrofica. C’erano i giovani con i sogni a fior di labbra. Non mancavano i vecchi in cerca di una ricollocazione.
E poi, dopo molte altre istantanee variamente scomponibili e ricomponibili, ecco l’ultima foto, quella della malinconia. Ecco la ‘Leopoldina’, recentemente celebrata a Palermo, al Teatro Santa Cecilia.
L’ultima foto, dunque. Il palco della suddetta ‘Leopoldina’. Uno scatto sorridente. E, su quel palco, con i piddini Davide Faraone e Lorenzo Guerini, Gianfranco Miccichè e Pierferdinando Casini. L’uno (Miccichè) in circolazione sulla passerella politica dagli inizi degli anni ’90, quando debuttò al fianco di Silvio Berlusconi, suo mentore e leader. L’altro (Casini) all’esordio come consigliere comunale Dc a Bologna nel 1980; uno che dava del tu ad Arnaldo Forlani. Ora, anche se Gianfranco e Pierferdinando fossero due arcangeli incastonati in esistenze di santità, all’odore di incenso, non si sfugge egualmente alla domanda: che c’azzeccano quei due con la rottamazione e il rinnovamento, propagandati per anni alla stregua di mantra della rivoluzione?
E molto altro si potrebbe dire e scrivere a riguardo, tuttavia quella foto – proprio quella foto residua – è il più lampante certificato finale di un fallimento, il sicilianissimo atto di chiusura del renzismo che ha rinnegato se stesso, del sogno che si è trasformato in traccheggio, in espediente tattico per la sussistenza. Altro che cambia verso.
Una trafittura resa più acuta dalla concatenazione degli eventi. Nella sceneggiatura del Pd, il Pd non c’era più, se non a spizzichi e bocconi. C’era invece un gasatissimo Gianfranco Miccichè che ha oscurato chiunque con la sua performance. Da qui, la provocazione che qualcuno ha addirittura scambiato per una cosa seria a testimonianza di una certa indeterminatezza: perché non eleggerlo segretario del Partito Democratico?
Grande è la confusione sotto il cielo dei rivoluzionari di ieri che hanno lasciato il passo a una retorica più truce. E come sembrano lontani i giorni felici della militanza renziana che marciava dritto, baciata del consenso, mentre oggi arranca, smentendo se stessa. E come appare dimesso l’onesto Maurizio Martina, che porta la croce della segreteria in una comunità di cocci sparpagliati, mentre, sempre a Palermo, confessa quasi implorante: “Troppo spesso ci parliamo addosso, dobbiamo cambiare”.
Diceva Riccardo III, principe ribaldo creato da Shakespeare: “Ora l’inverno del nostro scontento è reso estate gloriosa da questo sole di York”. Un invito a non abbattersi mai, nell’alternarsi delle stagioni, un motto apprezzabile, anche se tramandato dalla bocca di un criminale. Ma qui l’impressione è che l’inverno sia appena all’inizio. E che bisognerà aspettare a lungo, fosse pure per un flebile raggio di sole.
Pubblicato il
14 Ottobre 2018, 15:34