03 Maggio 2020, 12:59
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Mi piacerebbe incontrare Beniamino Joppolo nella ‘sala d’aspetto di una qualunque stazioncina del mondo’, esattamente quella che descrive nella sua opera teatrale L’ultima stazione perché rappresenta il luogo in cui diventa possibile praticare la poesia, ad opera di un Capostazione capace di mutare in fantastico un viaggio qualunque.
Vorrei trovarlo lì, con addosso una sciarpa a quadri che ricordo di avere visto in una sua fotografia, in un mattino d’inverno con il tepore del sole che, ancora, respinge il morso asciutto di febbraio.
Dopo essere usciti dal cono d’ombra della sala e avere allontanato lo spesso odore dell’attesa, troveremo, di certo, una panchina in prossimità dei binari che, chissà da quanto tempo, ci attende.
Da consumati passeggeri vi potremmo oziare allungando la schiena, vicino alle piante intimidite dalla stagione per apprezzarne qualcuna che resiste con i suoi fiori rossi, primitivi di carne. O, semplicemente, adeguare il respiro al tempo del grande orologio che sembra non servire in queste stazioni di provincia da dove, talvolta, si vede anche il mare.
E, proprio guardando l’orizzonte sottile d’azzurro, per non porgergli gli occhi, come segno di fragile alleanza, gli porgerei il libro giallo che raccoglie la sua produzione teatrale, segnata e annotata in grafite dalla mia mano, ancora giovane, in quei giorni in cui una sola parola basta a rendere colmo il desiderio.
Un solo gesto d’amore celato in una stazione in cui tutto non può essere scritto. Di certo la sua vita e, nell’immaginifica pausa, neppure la mia.
Ci troveremmo insieme ‘abumani’ e, dunque, esseri nuovi. Attraverso il rifiuto dell’individualità distruttiva, potremmo, ‘consapevoli nel sangue’, finalmente accettare di essere un solo corpo con il resto dell’umanità e con l’universo: ‘materia e spirito, vita e morte, in un terzo cosciente unico, totalmente libero ed eterno.’
In questa fratellanza risiede l’inafferrabile grandezza di Joppolo a cui la critica ha dato nomi diversi, non giungendo mai ad univoca stesura. Nella sua scrittura a grappoli, succosa e acida insieme, qualcuno ha intravisto i suoi legami con l’esistenzialismo. Analisi possibile, se non fosse per quell’eccesso di luce e di fisicità metafisica che appartiene alla cultura dell’Isola.
Forse per questo suo non essere mai imbrigliato dall’ortodossia intellettuale e politica (compresa una fede antifascista che gli valse il confino) è stato da troppi dimenticato, seppure la sua produzione letteraria sia pari a quella pirandelliana, seppure abbia lavorato a Milano con grandi attori e registi del suo tempo come Strehler, seppure se, da pittore, strinse legami artistici con Lucio Fontana e con Guttuso e, infine, accolto nella capitale francese dove la sua opera ‘I Carabinieri’, già messa in scena da Rossellini al Festival dei Due Mondi con le scene di Guttuso e l’interpretazione di Turi Ferro e Pupella Maggio, diventa pellicola cinematografica per la regia di Jean-Luc Godard.
Muore a Parigi, infine, lo scrittore che aveva confessato di ‘voler stare tranquillo, di non avere più tempo da perdere con se stesso né con gli altri e, nemmeno, con i personaggi che si affollano nei suoi drammi, nei racconti e nei romanzi, ‘parlando con loro stessi e poi con tutti e con nessuno’.
A Patti esiste un teatro a lui intitolato e le sue opere vengono rappresentate in maniera certamente non adeguata alla sua produzione.
Mi piace, adesso, pensarlo nella sua ultima stazione con il libro fra le mani ai margini di quelle infinite variabili del viaggio esistenziale che aveva tutte valutate.
Ci passerebbero accanto per un saluto discreto i suoi personaggi, materiche visioni, condotti dal Capostazione che ben dirige le ragioni del viaggio: lo sposo e la sposa con il loro appena iniziato destino, l’uomo pallido accompagnato dal padre e dalla madre, il vecchio che mai nessuno aveva guardato, l’uomo preoccupato accanto all’uomo che ha lavorato, pronti a salire sul vagone, insieme ad Agata con la sua voce dissonante insieme alla piccola Carlina che, spera, di avere una bicicletta più nuova.
Li vedremmo salire per non sapere mai dove vanno con le loro confessioni sotto il cuore che non sono le nostre o, forse, lo sono tutte.
E proprio su quella panchina di legno, macerata da troppe stagioni di sole, troverei l’ardire di chiedergli dove andremo noi tutti, dove andrò io fuori dalla favola della stazione in cui l’ho chiamato a convegno.
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03 Maggio 2020, 12:59