06 Agosto 2022, 14:33
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PALERMO – La mancata perquisizione del covo di Totò Riina e la latitanza di Bernardo Provenzano sarebbero state “volute” dai carabinieri. Non per fare un favore ai boss sanguinari, ma nel contesto di una ben precisa strategia per alleggerire la tensione e fermare le bombe.
La Corte di assise di appello di Palermo affronta le due vicende nella motivazione della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
“Esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni (Antonio Subranni e Mario Mori allora capo e vice dei carabinieri del Ros ndr) potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano – si legge nella motivazione – ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”.
Sarebbe stata una latitanza favorita, seppure in maniera soft, quella di Provenzano, erede di Riina. “V’erano dunque indicibili ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della sommersione, – spiegano i giudici – almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”.
“Ecco perché, il Ros, lungi dal disinteressarsi delle indagini mirate alla cattura di Provenzano, ne avrebbe fatto, apparentemente, un obbiettivo prioritario del proprio impegno investigativo in Sicilia, finendo per acquisire una sorta di monopolio di quelle indagini. Conoscere la rete di favoreggiatori era essenziale per potere esercitare comunque una pressione sul boss corleonese, e alimentare in lui la consapevolezza che i carabinieri avessero la possibilità e la capacità di porre fine alla sua latitanza, e tuttavia non l’avrebbero fatto finché vi fosse stata una convenienza in tal senso”, aggiungono.
“Insomma, si voleva ‘proteggere’ Provenzano, ossia favorirne la latitanza in modo soft, e cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo; ma tutto ciò non già perché, in caso di trasgressione di un fantomatico patto, l’altro contraente, avrebbe riattivato lo stragismo, bensì perché la caduta di Provenzano che avrebbe inevitabilmente fatto seguito ad un suo arresto, avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa Nostra”, concludono.
Facendo un passo indietro i giudici affrontano il tema della mancata perquisizione del covo di Riina, una villa in via Bernini, nel rione Uditore di Palermo, di proprietà dei costruttori Sansone. Le “sconcertanti omissioni” che seguirono la cattura del boss Riina, e in particolare la mancata perquisizione del suo covo, si inquadrano “nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti”.
“In tale contesto, e pur in assenza di un previo accordo con Bernardo Provenzano o con soggetti a lui vicini, e quindi di una specifica volontà di favoreggiamento – si legge ancora – con la mancata perquisizione del covo di Riina si intese lanciare un segnale di buona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio”.
“Non v’è prova che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano o con altri esponenti mafiosi che contemplasse da un lato la consegna di Riina dall’altro la rinuncia a perquisire l’immobile, dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d’ogni traccia. – prosegue la corte – Né Mori e i suoi potevano essere certi dell’esistenza all’interno dell’abitazione di tracce utili alle indagini o addirittura di documento compromettenti. Ma anche se fossero stati certi che non vi fosse nulla di compromettente, si sarebbero ugualmente determinati ad astenersi da una perquisizione immediata perché il significato di quel gesto era soprattutto simbolico, dovendo esso servire a lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo”.
I giudici d’appello ribaltano anche in un altro punto la sentenza di primo grado. Non credono che sia stata la trattativa ad accelerare la strage di via D’Amelio: “La Corte ritiene quindi di poter concludere nel senso che quell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l’onorevole Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto mafia e appalti”.
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06 Agosto 2022, 14:33