Medaglia d'onore alla memoria di Sangiorgio, sopravvissuto ai lager nazisti

Medaglia d’onore alla memoria di Sangiorgio, sopravvissuto ai nazisti

Il riconoscimento nella cerimonia che si tiene in Piazza Università.

CATANIA. Un riconoscimento che verrà consegnato questa mattina nella cerimonia che si terrà in piazza Università nel giorno della Festa della Repubblica. E’ quello che verrà assegnato alla memoria del biancavillese Gerardo Sangiorgio sopravvissuto ai lager nazisti e che tornato in paese si dedicò, per tutto il resto della sua vita, all’insegnamento: tramandando i valori universali della libertà e della pace.
“Un riconoscimento alla memoria di tanti ragazzi come Gerardo, che non sono più tornati e che nella fame, nel freddo, nell’inumanità cieca della violenza seppero sperare in quel germoglio che oggi si chiama Repubblica, democrazia. Con queste famiglie, in nome di quell’indicibile sofferenza, ci sentiamo insieme”, spiegano i familiari del compianto Sangiorgio.

La storia di Gerardo Sangiorgio nel racconto del figlio Dino

Tutto ebbe inizio il 10 giugno 1940, quando si apprestava alla licenza liceale. I ritmi duri di un servizio militare non scelto, la partenza per la campagna di Grecia.
Eppure da questo dramma, a me bambino, non mancò mai di regalarmi qualche sorriso, quando raccontava del clima gelido dell’Italia del Nord e di una camicia stesa la sera e trovata ghiacciata l’indomani, “come una pala di baccalà”, o di una esercitazione in cui si trovò scaraventato alla deriva sopra un motociclettone lanciato a tutta velocità.

Poi il racconto si faceva cupo, lucido e sempre sofferto, quando dalla gioia per l’annuncio dell’Armistizio, dopo i giorni in cui aveva partecipato al Congresso eucaristico a Berceto, si passava alla sera dell’8 settembre 1943 a Parma. Il giorno in cui la bella lattaia gli aveva proposto la fuga, come a molti compagni di camerata, procurandogli gli abiti civili, di fronte a un nebuloso, nefasto, presagio, palesatosi già nel via vai convulso sulle scale della caserma. Ma lui ligio al dovere, responsabile, in linea col padre, maresciallo delle guardie reali, che non aveva mai osato chiedere per vie preferenziali un suo avvicinamento, rifiutò.

Seguirono le urla, il “Raus Raus”, col mitra tedesco alle spalle. E dopo non aver ceduto alla lusinga della libertà, in cambio del suo prestar fede a Salò, vennero i vagoni piombati, in condizioni indicibili: un solo sportellino per prendere aria e gettare gli escrementi dopo giorni di viaggio.

Il “mani in alto”, la perquisizione, le stellette e le mostrine strappatigli di dosso nel KZ di Neubrandenburg. E poi il rosario dell’ “Italiener Scheisse”, o “Badogliani”, “Traditori”, l’essere ricordati solo dalla “Patria” con una tazzina di riso una volta al mese, e solo nel primo periodo, quello  in cui era possibile far filtrare qualche cartolina a casa.

Il divenire numeri, non più Gerardo Sangiorgio, bensì il 102883/IIA. E per lui che conosceva il francese il trasferimento dopo un po’ in un altro lager a Bonn, tenuto soprattutto conto del gonfiore al viso per l’insufficiente alimentazione, travisato come abilità al lavoro (provvidenziale per la sua salvezza).
Qui teorie infinite di freddo, fame, umiliazioni. Gli sputi tedeschi addosso, lo spegnergli le cicche delle sigarette a carne viva. E lui ancora fiero della sua scelta, ancora di fronte all’ultimo tentativo nazista: “Se passate con noi sarete liberi” (chissà quanto reale!?).

E come vita di tutti i giorni la corrente elettrica che attraversava il filo spinato, lo sguinzagliare i cani se qualcuno tentava la fuga. “Come potevano – si chiedeva fino all’ultimo – i tedeschi che tanto amavano i cani, o che avevano tanta cura per gli uccelli, lasciare morire così gli uomini. Così crudeli e dal cuore di pietra di fronte a un principio universale elementare”.

L’allucinante condizione umana: c’era chi per eludere un solo turno di lavoro si mozzava un dito con una scure, e chi desiderava che qualcuno, in virtù delle precarie condizioni di salute, rimettesse per bere il vomito. Intanto gli Americani erano alle porte: un bombardamento a tappeto sulla sua fabbrica, che  segnò la tragica fine di alcuni prigionieri. E lui trascinato all’indietro dai piedi, perchè ritenuto già morto da un commilitone in cerca di qualche vestito.

In quei giorni l’ulteriore tragedia di vedere rubata la sua cassetta, con i diari scritti anche con l’effimera luce di un fiammifero di notte, qualche numero de “L’amico della gioventù” e soprattutto le sigarette da lui accumulate che gli facevano ottenere, grazie al baratto con i russi in primis, qualche fettina sottilissima di pane o qualche buccia di patata: vale a dire la vita.

In quei giorni aveva assistito alla morte nel lager di Dessivo Pietro Mangerini. E per sottrarsi a quell’alienazione ripensava al suo Liceo, ripercorreva con la mente i versi della “Divina Commedia” e il meglio della produzione dei Poeti, e stringeva una reliquia di S. Gerardo, cucita all’interno della casacca con qualche altro santino.

Eppure ricordava anche un gesto di carità, rimasta sempre anonima: una mano che lasciava scendere con una cordicella un contenitore della spazzatura: dentro qualche rimasuglio di cibo, spesso un pezzettino di pane. E lui a vegliare, fin quando sicuro di non dare all’occhio poteva avvicinarsi alla pattumiera. Mano che non volle mai farsi associare a un viso. Un uomo o una donna? Mano che non volle mai un ringraziamento: il bene per il bene, a rischio della vita. Semplicemente.
Eppure era la Provvidenza, che lo voleva ancora vivo.

E poi il rientro a casa a Biancavilla, dove il padre per lunghi mesi lo aveva atteso ogni giorno alla fermata della Littorina, mentre la madre aveva fatto voto a S. Rita. In casa, intanto, si era sovrapposta, per sempre, un’incisione della Madonna, portata dalla Germania, al quadro del Re. Giunse la laurea, sudatissima e frutto di innumerevoli sacrifici. Atto “eroico”, com’ebbe a dire al padre un suo compagno di Liceo. E da qui la sua testimonianza sempre viva.
Ma qual’era l’insegnamento che a casa volle trasmetterci?
Si lasciava andare espressioni come “Mhei, per me era un sogno, un miraggio”, di fronte a un po’ di cibo che rimaneva nel piatto. Oppure imboccava me e mia sorella fino all’ultima stellina o pezzettino di pastina lasciata del piatto.

Un’esistenza, dunque, quella di mio padre, che ha lasciato una traccia nella memoria, per l’affermazione silenziosa e decisa di una via giusta, difficile e solitaria: una scelta affrontata lucidamente, una professione di fede che non può prescindere dall’azione, dalla scelta, anche a rischio del bene più grande. Una lezione”.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI