Migranti, l’ultimo smacco |Ma a cosa serve la Regione?

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08 Giugno 2015, 16:33

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PALERMO – Le regioni del Nord governate dal centrodestra battono un colpo. E si fanno sentire scegliendo un tema comodo e in qualche modo congeniale alla loro propaganda, l’immigrazione. “Scrivo una lettera ai prefetti lombardi diffidandoli dal portare in Lombardia nuovi clandestini, poi anche ai sindaci dicendo loro di rifiutarsi di prenderli. A quelli che dovessero accoglierli ridurremo i trasferimenti regionali come disincentivo alla gestione delle risorse”. Così Roberto Maroni, governatore della Lombardia. E quasi in una gara di lepenismo alle vongole, i colleghi di Veneto e Liguria lo hanno seguito. E la Sicilia? Dall’Isola che ospita nelle sue strutture il 22 per cento dei clandestini presenti in Italia, tutto tace. O almeno, tace per un giorno intero la Regione, che avrebbe tanto da dire – anche al limite per rivendicare una scelta di accoglienza – ma su questo come su altri temi squisitamente politici fin qui appare afasica.

Un silenzio che solo nel pomeriggio inoltrato di oggi il governatore Rosario Crocetta ha finalmente squarciato, accusando di “antimeridionalismo e xenofobia” la Lega, dietro la quale, accusa il presidente della Regione, “c’è ancora una volta l’idea di penalizzare il Mezzogiorno che dovrebbe gestire l’accoglienza con i propri centri che sono pieni”.

Meglio tardi che mai, certo. E un intervento tardivo è certo preferibile all’evanescenza ai limiti dell’invisibilità che caratterizza l’isola nel dibattito politico. Non è una novità, in fondo. Perché se le Regioni italiane tutte vivono una profonda crisi di identità, percepite come inutili, sovradimensionate e costose, quelle a statuto speciale e la Sicilia in special modo, svettano nella percezione negativa dell’opinione pubblica. D’altro canto, se ha destato giustamente scalpore il dato della bassa affluenza delle Regionali di una settimana fa, con un paio di regioni poco sopra il 50 per cento, oltre Stretto i più sembrano aver dimenticato che in Sicilia due anni e mezzo fa quelli che si scomodarono a votare furono meno della metà degli aventi diritto. Un disastro. Figlio senza dubbio del disastro con la “d” maiuscola che si chiama Regione siciliana.

Qualche settimana fa vi proponemmo una riflessione dal provocatorio titoloMa a cosa serve l’Ars?”. Che in fondo rappresentava solo un pezzo del più grande e irrisolto quesito: a che serve questa Regione? A cosa o a chi servono queste Regioni?

Un ex governatore come Giancarlo Galan poco tempo fa ebbe e a dire che le Regioni per come oggi sono andrebbero abolite (“o andrebbe abolito lo Stato”, aggiunse). Trovando concorde l’allora governatore campano Stefano Caldoro. Troppa gestione, troppe competenze, troppe duplicazioni con lo Stato centrale. Il tutto nelle mani di classi dirigenti per lo meno discutibili. Basta scorrere l’elenco dei beni acquistati dagli “onorevolini” regionali, a tutte le latitudini, e finiti nelle inchieste che in diciassette regioni si sono occupate dei rimborsi dei gruppi consiliari: oggetti da ferramenta, fuochi d’artificio, ovetti Kinder, sigarette, fumetti, pecore, gratta e vinci. Spesso pochi spiccioli, d’accordo, ma indicativi di una forma mentis che è quella che poi ha prodotto lo “sgoverno” delle regioni, di cui la Sicilia è un esemplare archetipo.

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Di problemi questa Regione non ne risolve. Ne eredita a iosa dalle gestioni precedenti e come si muove per mettere pezze crea nuovi disastri. Lo sanno bene i dipendenti della formazione professionale, tanto per fare un esempio. Errori su errori, spesso sanciti col timbro di sentenze della magistratura. Pasticci di ogni sorta, molto spesso figli di scelte approssimative. È questa la pachidermica Regione siciliana nel nuovo millennio, sempre meno potente e sempre più malconcia, con le casse vuote e il libro paga pieno di stipendi e sussidi spacciati per tali, in questo gigantesco ufficio di collocamento che tra regionali, precari, forestali, dipendenti delle partecipate mangiasoldi divora denaro tolto a un territorio già moribondo di suo, al quale non tornano indietro servizi apprezzabili.

Un fallimento totale, una frana che si protrae da anni nell’ignavia generale, proprio come quella di Caltavuturo che ha messo al tappeto il viadotto Himera e con esso la Palermo-Catania e l’economia boccheggiante dell’Isola. Disastro nel disastro, quando dopo quaranta giorni dalla chiusura finalmente a Roma ci si è decisi a dichiarare lo stato d’emergenza, la politica regionale non ha trovato di meglio da fare che applaudire ai propri beniamini nazionali. A cui d’altronde solo pochi mesi prima il governo Crocetta si era inchinato con la Canossa della rinuncia ai contenziosi (miliardari) pendenti davanti alle varie giurisdizioni. Eccola, l’autonomia 2.0, quella dei commissariamenti selvaggi (dichiarati o sottintesi, vedi alla voce bilancio) da parte di Roma su tutto e per tutto, tutti decisi alla luce dell’incapacità della Regione.

Ma se questo è lo stato delle cose, se è Roma che alla fine prende le decisioni, di nuovo ci chiediamo se oggi l’autonomia abbia ancora un senso, in un momento in cui la stessa esistenza dell’istituzione regionale è messa in dubbio. Di certo, questa autonomia, così declinata, significa ormai poco o niente. Ne rimangono solo i privilegi insensati, come quello che permetterà all’Assemblea regionale di mantenere, anche dopo i tagli della prossima legislatura, venti deputati in più di quanto le spetterebbero, o ai suoi dipendenti di godere di trattamenti economici e pensionistici agganciati a quelli delle Camere, e quindi smisurati rispetto agli altri consigli.

Se nelle regioni, e in Sicilia per certi versi più che altrove, la politica latita (o riaffiora solo per bordate populiste come quelle di ieri sui migranti), la classe dirigente non risponde alle esigenze dei territori, i conti soffrono per buchi più o meno vorticosi, i venti mini-stati che aggiungono leggi, leggine e burocrazia alla già caotica galassia statale hanno comunque una loro funzione. Quella di spendere i pochi soldi che sono rimasti. In quell’allegra anarchia ben rappresentata dalle spese per la sanità, con presidi che in alcune regioni costano il doppio, o il triplo rispetto ad altre. E questa è solo la la madre di tutte le follie del sistema regioni. Quelli che dovrebbero essere enti destinati ala programmazione, alla pianificazione, sono dappertutto, come in Sicilia, enti che si occupano di gestione, ingolfando così la propria pachidermica burocrazia. “Non si può pensare che la Regione si occupi delle autorizzazioni per la realizzazione di un pozzo per irrigare l’orticello di casa”, sintetizzò qualche mese fa il presidente dell’Assemblea Giovanni Ardizzone, commentando il disegno di legge di riforma delle Province, che avrebbe dovuto alleggerire di competenze la Regione per spostarne diverse in capo agli enti locali. Sappiamo tutti com’è finita: il ddl è stato impallinato, le vecchie Province ancora là stanno, gestite da commissari, ovviamente di nomina regionale. Un quadretto significativo per comprendere l’ultima delle “utilità” di questa Regione, la spartizione di granelli di potere nel disperato, e illusorio, tentativo di mantenere o consolidare brandelli di consenso. Altro che autonomia…

 

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08 Giugno 2015, 16:33

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