09 Maggio 2021, 07:21
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Il futuro è smart. Secondo il recentissimo sondaggio Emg-Different per Adnkronos, 8 italiani su 10 sono favorevoli a lavorare da remoto anche dopo la fine della pandemia da Covid-19. Lo smart working, ricordiamolo, non è una modalità di organizzazione del lavoro dovuta all’emergenza. Non tutti sanno che esisteva già la possibilità di accesso al telelavoro e al lavoro agile semplificato: riguardava, in generale, un solo giorno a settimana in cui veniva concentrato il lavoro individuale e coinvolgeva ruoli rispetto ai quali fosse più facile monitorare i risultati raggiunti. Grazie a uno schema comunque già strutturato, quando è esplosa la pandemia non è stato complicato procedere a organizzare il lavoro da remoto.
Adesso, la sua “normalizzazione” richiederebbe l’aggiornamento dell’impianto normativo che lo regola, dato che la legislazione di riferimento risale al 2017. Il dato più rilevante da quando il fenomeno smart working ha provocato il “terremoto organizzativo” lavoristico, è che, contrariamente ai pronostici, l’infrastruttura informatica di supporto non è stata un problema. I fatti hanno dimostrato quanto il digitale sia parte integrante della nostra vita e come coinvolga intensamente anche il mondo del lavoro. La crisi pandemica ha accelerato un processo che, dal gennaio 2020, ha fatto crescere da seicentomila a 8 milioni il numero di italiani che lavorano da remoto. Una ricerca curata dall’Unione Industriale di Torino, alla quale hanno contribuito 300 aziende che danno lavoro a 50mila dipendenti, rivela che più del 50% delle imprese lo adotteranno anche in futuro: il tasso di diffusione dello smart working è passato dal 17,5% nel 2019 all’ 86% nel 2020 e dovrebbe attestarsi al 50,4% anche una volta superata l’attuale fase legata al Covid-19.
Le prospettive post-pandemiche ipotizzano uno scenario in cui i cambiamenti a cui si è stati obbligati verranno stabilizzati in modo definitivo, soprattutto nelle grandi aziende. Per comprendere cosa sta succedendo, e per interpretare una tendenza la cui irreversibilità appare evidente, chiediamo lumi alla scienza. Secondo gli economisti Davis, Ghent e Gregory ( The work-from-home technology boon , 18 aprile 2021), la pandemia ha solo accelerato l’adozione di un percorso che presto o tardi doveva essere intrapreso. Inaspettatamente, grazie a nuove cognizioni e all’adozione massiva della tecnologia, lo spostamento forzato del lavoro a casa ha aumentato la produttività. All’inizio della pandemia, da un giorno all’altro la maggior parte dei “colletti bianchi” ha iniziato a lavorare dallo studio di casa, ma anche dal tavolo della cucina o dal garage per rispettare le misure di lockdown. Ma dalla maggiore flessibilità non è conseguita una “sciatteria lavorativa”: al contrario, è accaduto che la produttività del lavoro in ufficio si sia ridotta così drasticamente che il working from home , a confronto, è risultato più produttivo. Piaccia o no, sono effetti collaterali del distanziamento sociale. Ma cosa ha reso questo cambiamento permanente, e come influenzerà il modo in cui viviamo e lavoriamo, e i nostri redditi in futuro? In realtà, più che piombarci addosso inaspettatamente nel 2020, la rivoluzione costituita dalla possibilità di lavorare da casa è stata preparata lentamente nel corso di un trentennio.
Gli straordinari progressi tecnologici, la disponibilità, a partire degli anni Novanta, di PC economici con Microsoft Word ed Excel, la diffusione della posta elettronica al lavoro, e, dagli inizi del Duemila, internet ad alta velocità, l’avvento degli smartphone e il perfezionamento della tecnologia delle videoconferenze per facilitare le riunioni a distanza ovunque nel mondo, hanno tracciato il futuro del “posto di lavoro” post-pandemia: secondo gli esperti, la maggior parte dei lavoratori svolgerà parte del lavoro in ufficio e parte da casa anziché scegliere una soluzione radicale; infine, gli effetti a lungo termine del COVID potrebbero portare a redditi più alti nel corso della vita della popolazione attiva. Altra domanda da porsi è, insieme ai ricercatori Jonathan Dingel e Brent Neiman, How many jobs can be done at home? A questo interrogativo fondamentale per l’economia, quanti lavori possono essere svolti a casa, rispondono i risultati della classificazione della fattibilità del lavoro a casa per tutte le occupazioni: negli Stati Uniti, il 37% dei lavori può plausibilmente essere svolto da remoto; il 20% in Canada, ove, data l’immensità del territorio, ben prima della pandemia era già diffuso il lavoro da casa, mentre, secondo i datori di lavoro scandinavi, dopo la pandemia la quota di lavori che possono essere svolti da casa raddoppierà. Se in questa fase lavorare da casa è “cosa buona e giusta”, in medio stat virtus .
Nel saggio Working from home: Too much of a good thing , gli economisti Behrens, Kichko e Thisse, analizzati gli effetti della tendenza al telelavoro, accelerata dalle misure di contenimento del Covid-19, sostengono che lavorare da casa permette di risparmiare tempo e denaro per i trasporti, ma priva le aziende dei benefici delle informazioni e degli scambi che si coltivano nell’ambiente di lavoro; inoltre, se è vero che le aziende necessitano di spazi inferiori e di minori dotazioni per gli uffici, con grandi risparmi, di contro i dipendenti hanno bisogno di più spazio a casa. Nel complesso, i benefici sarebbero massimizzati se si lavorasse da casa un paio di giorni a settimana. Anche in Italia lo smart working non è più l’eccezione che conferma la regola: piuttosto, sono le regole che vanno riscritte.
Governo, sindacati, imprese, management, dovranno concentrare l’attenzione su luci e ombre del variegato mondo del lavoro, sulla crisi occupazionale e su un nuovo modo di lavorare. Mentre è indubbio che le competenze digitali dei lavoratori siano cresciute e che – non dimentichiamolo – si sia effettuato un importante contenimento del contagio -, la linea adottata dal precedente Premier (quota fissa per lo smart working nella Pubblica Amministrazione e forte indicazione a utilizzarlo nel privato), è stata recentemente dismessa. Il ministro per la Pubblica Amministrazione ha eliminato l’obbligo di far lavorare da casa almeno il 50% dei dipendenti; il lavoro agile sarà consentito fino al 31 dicembre a patto di garantire “continuità ed efficienza”, mentre per il settore privato lo smart working semplificato prosegue fino al 30 settembre. Le nuove disposizioni hanno dato adito a commenti politicamente scorretti, come se, fino a ieri, consentire il telelavoro sia stato erogare una sorta di “vacanza illimitata”, sottacendo come, per il settore privato e in particolare per i precari, sia stato il preludio a nuove forme di schiavizzazione.
Lo sforzo richiesto ai lavoratori per l’adeguamento alle nuove misure, il ricorso alle risorse individuali non solo per gli spazi lavorativi e per l’aumento dei costi dei consumi domestici, ma rispetto al possesso e all’utilizzo di strumentazioni personali, sono stati svalutati. In un Paese lacerato dalle polemiche, impoverito dal Covid non meno che da scelte politiche sbagliate, dato il perdurare del contagio e la battuta di arresto della campagna vaccinale, è fin troppo facile distogliere l’attenzione dai veri problemi e mettere le parti sociali l’una contro l’altra. La verità è che, anche se è confortevole puntare il dito contro la pubblica amministrazione, che comprende la bistrattata categoria degli insegnanti, ciclicamente messi alla gogna mediatica, di questa massa silenziosa che costituisce l’ossatura burocratica e amministrativa del paese (e paga le tasse) c’è bisogno e, contrariamente a quanto si pensi, la si utilizza a costi bassi. Per parlare attraverso le statistiche, e non con le viscere, anche se un luogo comune recita che siano troppi, secondo uno studio realizzato da Impresa Lavoro su elaborazione di dati Istat, Eurostat e Mef, l ’Italia è al quart’ultimo posto in Europa nel rapporto tra numero dei dipendenti pubblici e numero complessivo dei lavoratori, ovvero ha il 14% di impiegati nelle amministrazioni pubbliche sul totale degli occupati e soltanto l’Olanda (13%), il Lussemburgo (12%) e la Germania (10%) ne hanno di meno: ma, per dirla tutta, fra italiani e tedeschi la differenza di salario è talmente ampia da arrivare, per gli insegnanti teutonici, fino al doppio dello stipendio degli italici colleghi. Invece, i tedeschi pagano molto meno i loro rappresentanti politici: deputati e senatori italiani guadagnano in media 40 mila euro più degli omologhi tedeschi, 56mila euro più dei francesi, 35mila più degli americani, il doppio esatto dei lord inglesi e 10 volte più degli ungheresi… ma questa è un’altra storia!
Come dimostrano i dati, smart working e telelavoro hanno connotati di economicità a parità di efficienza e sono le nuove strutture sulle quali si articolerà il lavoro di tipo burocratico e amministrativo nel futuro. Paradossalmente il Covid 19 ha fatto emergere un realtà sulla quale si sorvolava: che gran parte del lavoro, che ovviamente non riguarda la produzione di beni o la erogazione di servizi che richiedano una presenza fisica, si possono svolgere da remoto. Questo futuro non riguarda privilegi di casta come, si spera, non riguarderà più l’emergenza sanitaria, ma corrisponderà ai criteri di economicità e funzionalità di un sistema profondamente cambiato dall’innovazione tecnologica. E se in questa acquisita normalità gli individui avranno modo di recuperare forme più umane di vita, sarà a vantaggio dell’intera compagine sociale.
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09 Maggio 2021, 07:21