06 Ottobre 2024, 05:01
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CATANIA – Nella vita di un boss detenuto non farà certamente troppa differenza. Chi ha al suo attivo una raffica di condanne all’ergastolo, di certo, non perderà sicuramente il sonno alla notizia se sarà, o meno, un sorvegliato speciale, dunque sottoposto a una misura di prevenzione personale.
L’assunto potrebbe forse ancor più vero quando il personaggio in questione è Nitto Santapaola, in prigione perché i tribunali lo hanno riconosciuto tra i mandanti di alcune delle pagine più oscure della storia recente del Paese.
Sta di fatto che adesso è ufficiale: la Procura di Catania non ha impugnato il rigetto, da parte del Tribunale etneo, della misura di prevenzione personale che era stata chiesta per il boss. Tra i no a quella misura – i giudici chiedevano la sorveglianza speciale – c’è il fatto che Santapaola sia detenuto ininterrottamente dal 18 maggio del 1993.
Non c’è nessuna impugnazione, anche perché Santapaola non è esattamente “in uscita” dal carcere. Meno di un anno fa, inoltre, il tribunale ha ritenuto che “una condizione di pericolosità sociale di Benedetto Santapaola” permanga, costante nel tempo e ancora attuale.
Ma i fatti sono indiscutibili: nella primavera di 31 anni fa, finì in prigione grazie all’operazione “Luna Piena”, condotta dalla polizia nelle campagne di Mazzarrone. Dopo qualche tempo, gli fu imposto il 41 bis, il cosiddetto “carcere duro”. Una misura che vieta categoricamente ogni tipo di contatto con l’esterno.
In questa condizione, non può avere contatti con gli altri mafiosi. È evidente. E, per smentire questo assunto, non possono certo bastare i borbottii di un imprenditore catanese, intercettato mentre dice: “Devo parlare con Nitto”. Questo perché non c’è prova che ci abbia mai parlato, lui, con Nitto: non, quantomeno, dopo quel giorno, non dopo averlo detto tra sé e sé.
In Tribunale l’avvocato di Santapaola, il penalista Carmelo Calì – che lo difende da più di cinque lustri – ha anche prodotto un’indagine difensiva fatta presso le istituzioni dello Stato. Il legale ha infatti chiesto al Ministero della Giustizia e al Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, se il suo cliente avesse avuto contatti con l’esterno, da quando è detenuto.
Le autorità hanno risposto che per motivi di riservatezza, a questa domanda, non poteva arrivare alcuna risposta. E questo è stato sufficiente, lì ci si è fermati. Non potendo dimostrare il contrario, in pratica, la misura richiesta per il “prevenuto” (si chiama così l’imputato di una misura di prevenzione), non può essere accolta. Ora la Procura non ha impugnato la decisione, che passa in giudicato.
La Procura inizialmente aveva chiesto la misura nell’ambito di una indagine dei Ros. L’inchiesta ha aperto uno squarcio sulla conduzione di beni che per gli inquirenti sarebbero riconducibili, direttamente o indirettamente, a esponenti di Cosa nostra etnei.
Il procedimento si è concluso con una misura di prevenzione patrimoniale che tuttavia ha riguardato altre persone, non personalmente Santapaola. Alcuni dei beni, per l’accusa, sarebbero riconducibili al suo clan.
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06 Ottobre 2024, 05:01