‘Nostro Onore’ di Marzia Sabella | La poesia della realtà

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15 Marzo 2020, 18:17

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Gli ingredienti c’erano tutti.

'Nostro onore' di Marzia Sabella

Nostro Onore di Marzia Sabella poteva essere, come tante altre pubblicazioni, un accattivante prodotto commerciale: la testimonianza di una donna magistrato, siciliana, che racconta la sua lotta contro la mafia. Il pacchetto poteva essere confezionato, ancora prima di vedere la luce. E, come ella suggerisce, fondato su un pregiudizio all’incontrario: bastava riempirlo di segni con accenti di buona suggestione.

Invece ciò non accade perché la scelta narrativa segue il percorso della ‘normalità’ che, più esattamente, chiamerei umanità.

Fin dalle prime pagine è evidente una deviazione del progetto iniziale, con ciò che, letterariamente, potremmo definire un tradimento, ossia con la necessità di portare il racconto oltre la storia pensata.

Istintivamente, la scrittura si dirige verso l’autobiografia con un linguaggio capace di compiere il prodigio della confessione. Ne sperimenta uno tutto suo, lo segue senza indugio, lo evidenzia, lo corrompe, facendone una personalissima lingua che trae linfa dalla cultura dell’isola.

Dall’antico affabulare siciliano, volutamente deviato, il narrare si dirige verso modelli di comunicazione contemporanei e quotidiani con una tendenza al riserbo quando la parola torna ad insistere sui concetti emozionali, diventando schiva e pudica.

Talvolta, il tempo narrativo accelera inducendo a una risata o rendendo plastica la descrizione dei luoghi per avviarsi verso la pausa lirica della realtà.

C’è molto silenzio in ‘Nostro Onore’, pause infinite che servono a riprendere fiato quando il passaggio diventa doloroso, quindi inenarrabile.

L’io narrante è generoso, sempre dietro le quinte. Appare quando è necessario e cede, con capacità stilistica, lo spazio ad ogni personaggio, non alterando mai il rapporto fra parola e giudizio.

Ciascuno ha un nome, non un ruolo e, libero dalla storicità degli eventi, si consegna alla realtà della mente.

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Così è proprio la voce di Pio Pio, il bambino abusato che non sa raccontare il dolore e che sembra insegnare ‘che la condanna dei colpevoli paga il conto alla giustizia ma non paga nessuno’, o che ‘l’orrore può arrendersi alla pietà’ o, ancora, ‘che non bisogna fidarsi delle correzioni automatiche del computer’.

Non è facile nulla per chi scrive con l’anima e sceglie secondo un comando interiore.

Nel suo romanzo civile Marzia Sabella scrive da donna confermando il proprio ruolo, non soltanto professionale, ma di produttrice di un sapere poetico.

Così è quando narra la morte, volutamente, a bassa voce. Ce ne racconta l’opacità e la violenza, il sorprendente vigore e il muto assedio. La stana dovunque. O, forse, le va incontro con il rigore della professione e la consapevolezza del suo compito. Ma, anche, con la sua rivolta, con la capacità di non rassegnarsi, di non volere fare i conti con l’ingiustizia.

Mi è sembrato di vederli tutti quei visi. Li racconta come li ha visti ma, soprattutto, come non voleva vederli. Nel suo tacere ci sono i gesti di pietà del composto lutto della gente di Sicilia ma, soprattutto, una morte che odora di risurrezione, come diceva Montale, ossia in qualche luogo umanamente salvificata dal narrare stesso.

Un capitolo ‘Mafia, singolare femminile’, è dedicato interamente alle donne descritte nei loro piccoli gesti e in grandi consapevolezze, tutte nel perimetro del matriarcato siciliano, sia che si parli di donne di mafia che di personaggi raccolti dalla sua sensibilità e osservazione.

Da questo rincorrersi di visi femminili è nata una riduzione drammaturgica che abbiamo portato a battesimo a due mani, quale rara possibilità di scrittura condivisa e di conferma di affinità elettiva.

La prima messa in scena ha avuto come scrigno il teatro antico di Segesta in cui, sullo scivolare del sole, le nostre donne, in un alternarsi di toni diversi, hanno dichiarato ad un pubblico attentissimo, la sconfitta dell’altra metà del cielo del fenomeno mafioso: l’anti genesi, la solitudine, la sconfitta.

‘Nostro Onore’ è un libro laico, privo di qualsivoglia fondamentalismo, lontano da ogni dogmatismo ideologico, nelle sue accezioni polisemiche.

Dio è lontano da queste pagine. Anzi, assente. Non se ne intravede l’ombra. Il destino dei personaggi è narrato e risolto in un’umanità che si avvicenda e scompare, priva di una mente ordinatrice a cui affidare ruoli precostituiti o risultati di eccellenza qualificata.

C’è l’uomo di Sicilia, pirandellianamente rivisitato: un uomo che ignora lo spirito, appagato dalla deità dell’isola, a stento in grado di indossare la maschera dell’anima a cui non riconosce forma, né qualità. Ma anche il germe dell’assurdo, pronto a colpirci in faccia ad ogni angolo di strada.

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15 Marzo 2020, 18:17

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