"La pacchia" | di Bianca Stancanelli - Live Sicilia

“La pacchia” | di Bianca Stancanelli

Smaila il fammoso era arrivato fra i morti del mare su un qualunque gommone e, muto, vi ritorna, fra quattro legni

INCHIOSTRO DI SICILIA
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Smaila il fammoso era Soumaila Sacko nato in Mali, ucciso in Italia.

Con questo nome, affettuosamente storpiato, Don Roberto aveva archiviato una foto nel suo computer, mentre il fammoso lo aveva aggiunto lui.

Doveva essere una foto destinata alla famiglia perché lo ritraeva davanti ad uno scaffale di sneakeer coloratissime, non certo con lo sfondo della baraccopoli di San Ferdinando perché ‘una sola cosa riusciva a fare infuriare il mite, taciturno, sorridente Soumaila: l’arrivo dei fotografi e delle telecamere dalla Bbc a Mediaset, dalla Rai ai registi di documentari’.

Provava vergogna ad essere ripreso nelle cantine della schiavitù.

Quando era arrivato in Italia? E chi o cosa aveva condotto in queste baracche il giovane africano, forse nato il primo gennaio 1989, data probabilmente assegnata dalla burocrazia?

Certo portava un nome difficile da pronunziare. Così bisogna pur accettarne uno possibile per essere appellato nella terra che accoglie come una cattiva madre.

Invece, Bianca Stancanelli, lo porta a battesimo già nella copertina del libro, così che non si possa più confondersi o essere tradito. Sì, proprio lui, u niuru Smaila, figlio di una morte minore, lasciata nel fango.

Perché è nostro mestiere dare la vita. E ridarla. Tutto può comprendere, scusare e, perfino, sopportare l’intelletto femminile, tranne consacrare l’ingiustizia. Quando si è diventate donne, come dice Simone de Beauvoir.

Non si può preferire un figlio al posto di un altro, non si può accettare la pacchia della schiavitù di un yelimané, non è possibile ‘non intendere con il cuore’, così come fa Bianca, citando le parole di Cristo, a commento di una profezia di Isaia.

‘Nell’ora in cui Soumaila Sacko crolla a terra, con il cervello invaso da frammenti d’osso e di metallo, 866 chilometri più a Nord, Salvini ripete il suo slogan ‘ad una folla eccitata con un microfono in mano e le maniche di una camicia azzurra arrotolate.’

E’ il 2 giugno 2018, quando viene ucciso. La festa della Repubblica, di questo, invece, si può essere certi.

Fra queste due atti definitivi, ci sono le parole di Bianca Stancanelli, puntuali come altri proiettili d’amore, in un narrare incandescente che sa di ‘ruggine, polvere e abbandono’.

In contrada La Tranquilla un uomo spara a Smaila. Da seduto, comodo, a gambe larghe, forse per prendere meglio la mira con una cartuccia da 24 centesimi.

U niuru ladro ha la colpa di prendere, insieme ai compagni, lamiere dal tetto di una fornace, ‘un cimitero di rifiuti tossici’, per costruire una baracca nell’agglomerato degli ultimi.

Sarà un compagno, abilissimo nell’utilizzo dei social a denunziarne l’assassinio. La stampa ne parla, l’indignazione organizza cortei, promuove una colletta per rimpatriare la salma e risarcire la madre e la moglie.

Esplode così la sua infima vita. Il nostro fammoso era arrivato fra i morti del mare su un qualunque gommone e, muto, vi ritorna, fra quattro legni dopo aver abitato il tempo duro del caporalato calabrese.

Ma una scrittrice, prima che sia tutto dimenticato, ne rintraccia l’anima. E il sorriso con cui sorridono i giovani uomini che, ancora, coltivano la speranza.

Ne segue le tracce mentre vaga per gli ospedali a causa di un’ulcera perforata. Sembra che la disgrazia lo renda visibile, lo faccia emergere dal ghetto dove i braccianti neri della piana ‘arrivano sani e si ammalano in Italia.’

Con passione Bianca Stancanelli ricostruisce la cronaca di una rovina umana.

Soumaila riceve il permesso di soggiorno per due anni, ma non il diritto alla vita: la protezione umanitaria non esiste più nel diritto italiano, cancellato dal decreto sicurezza. ‘Se non fosse stato ucciso, oggi, sarebbe un irregolare.

Ne rintraccia anche i sogni, quelli che mai si avverano in quattro anni di vita italiana: giocare nella squadra di calcio degli africani di San Ferdinando. Quei sogni che ‘non hanno neppure il tempo del rimpianto’.

L’assassino si chiama Antonio Ponterieno. Viene arrestato e processato. Il Pubblico ministero ha rinunziato a contestare l’aggravante dell’odio razziale. Smaila è stato ucciso ‘per la roba, anche soltanto una striscia di terra’.

La baraccopoli, con un’ordinanza del Sindaco che ne decreta lo sgombro immediato, viene rasa al suolo, alla fine della stagione di raccolta quando gli schiavi non servono più.

Il giorno in cui inizia la Quaresima Don Roberto celebra la messa con le ceneri delle baracche bruciate.

Un anno dopo il delitto viene deposto un mazzo di rosse rosse dove cadde Smaila ‘quasi a coprire la larga macchia marrone che è, forse, sangue secco, mentre alto nel cielo, per tutto il tempo della cerimonia, un uccello rapace rotea in ampi giri, ad ali spiegate.

Una vivissima accusa, asciutta di enfasi, altissima nel suo senso di giustizia più autentico, ci riporta il sorriso di un fratello che sarebbe stato, in altro modo, seppellito nel mare della nostra indifferenza.


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