“Sono stati quelli del Borgo”| Omicidio Fragalà, 6 anni di mistero

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07 Settembre 2016, 10:24

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PALERMO – La mafia non pagò le spese legali a uno degli indagati, poi scagionati, per l’omicidio di Enzo Fragalà. Lo racconta il neo pentito del Borgo Vecchio, Giuseppe Tantillo, aggiungendo un tassello all’indagine sull’assassinio dell’avvocato penalista.

La ‘mutua’ di Cosa nostra prevede che venga garantita assistenza legale a chi finisce in carcere. In questo caso si trattava di Salvatore Ingrassia che, mentre era in cella per mafia ed estorsione, fu raggiunto da un nuovo ordine di custodia cautelare per l’omicidio Fragalà. Non pagare le spese legali forse, ed è su questo che ragionano in Procura, significava prendere le distanze da quanto accaduto in via NIcolò Turristi, sotto lo studio del penalista.

A questo punto bisogna fare un passo indietro. Livesicilia un anno fa, nel settembre del 2015, ricostruì che un insospettabile era entrato nell’inchiesta. Qualcuno che bazzica negli ambienti di Cosa nostra, ma che non ha collezionato precedenti di spessore. Farebbe parte della manovalanza dei clan mafiosi. Uno dei tanti picciotti che scalpitano e a cui viene affidato il lavoro sporco. A lui sarebbe stato chiesto di partecipare alla spedizione punitiva nei confronti del penalista palermitano.

Sotto inchiesta per il delitto del 2010 erano finiti Francesco Arcuri, Antonino Siragusa e Salvatore Ingrassia. Le prove a loro carico, però, si sono sgretolate ed è arrivata l’archiviazione.

Poi, al Borgo Vecchio si è pentito Francesco Chiarello che ha riferito di avere assistito ad una riunione in cui i boss stabilirono che Fragalà doveva essere punito. Il Borgo fa parte del mandamento di Porta Nuova. Ed è a Porta Nuova che il piano venne programmato, studiato e ordinato. Fragalà doveva essere picchiato ed invece il suo aggressore infierì sul corpo del povero penalista con un grosso bastone.

La collaboratrice Monica Vitale, figlia dello stesso rione, disse di avere ascoltato Tommaso Di Giovanni, pure lui in cella con l’accusa di avere preso il potere successivamente al cugino Gregorio, mentre forniva, parlando con Gaspare Parisi (amante della donna ndr) una chiave di lettura dell’omicidio. Fragalà non si era comportato bene con la moglie di un cliente, e il cugino dell’indagato avrebbe chiesto ai mafiosi di dare una lezione al penalista per il suo atteggiamento irrispettoso. Il gip che mandò in carcere Arcuri, Ingrassia e Siragusa (poi del tutto scagionati) definì “sostenibile” la sua tesi nonostante i dubbi degli stessi investigatori. Il cliente del penalista aveva dato fastidio con i suoi furti senza autorizzazione tanto che gli avevano bruciato la macchina. La mafia avrebbe mai potuto fare un favore, uccidendo il povero Fragalà, ad una persona che si era meritata una punizione?

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Ecco perché si è sempre ipotizzato un altro movente: Fragalà andava punito perché avrebbe fatto rendere dichiarazioni spontanee ad alcuni clienti. Un atteggiamento di collaborazione che, nella folle logica di Cosa nostra, avrebbe meritato una punizione. Mentre i carabinieri si concentravano sulla figura del nuovo presunto componente del commando che picchiò Fragalà, deceduto nel febbraio 2010 dopo alcuni giorni di coma, Arcuri e Gregorio Di Giovanni furono bloccati seduti al tavolino di un bar a Mondello.

La legge obbliga un sorvegliato speciale a stare alla larga dai pregiudicati. Eppure entrambi avevano deciso di correre il rischio di incontrarsi. Una leggerezza, la loro, dettata dalla voglia di due vecchi amici di incontrarsi dopo tanto tempo vissuto in cella oppure avevano qualcosa urgente da discutere?

Gli investigatori hanno ripreso ad analizzare gli elementi fin qui raccolti, ritenendoli validi nonostante la bocciatura dell’archiviazione, e aggiungendone altri. Tra questi, un’intercettazione. “… ma non è che sono stati quelli del Borgo?”, chiedeva Giovanni Di Giacomo. “Sì”, rispondeva senza esitazione il fratello Giuseppe. Era il 19 luglio 2013. I Di Giacomo, nella sala colloqui del carcere di Parma, discutevano dell’omicidio dell’avvocato Fragalà. La breve, ma significativa, conversazione fa parte del nuovo filone investigativo sull’efferato delitto.

L’intercettazione dei Di Giacomo, che non era inclusa nel vecchio fascicolo, è dell’estate di due anni fa. Otto mesi dopo quelle parole i killer avrebbero crivellato di colpi Giuseppe in una strada della Zisa. Giovanni, sicario ergastolano del gruppo di fuoco di Pippò Calò, chiedeva informazioni al fratello che in quel momento storico aveva assunto una posizione di vertice nel clan di Porta Nuova. La conversazione avveniva una settimana dopo che Arcuri, Ingrassia e Siragusa erano finiti in carcere nell’ambito dell’inchiesta poi culminata nell’archiviazione.

Giuseppe Di Giacomo, nel luglio 2013, dunque, sapeva che il delitto era stato deciso da qualcuno del Borgo. Il fratello si chiedeva “ma tu pensi che Spitino non sa niente?”. Spitino sarebbe il soprannome di Gregorio Di Giovanni. Per Giuseppe Di Giacomo era impossibile dare una risposta visto che il 26 febbraio 2010, giorno del delitto Fragalà, era detenuto al carcere Pagliarelli.

Non è l’unica conversazione in possesso degli investigatori. Il 17 gennaio 2014, dunque in epoca molto più recente, sempre nel carcere di Parma, Giovanni Di Giacomo, stavolta a colloquio non solo con Giuseppe ma anche con l’altro fratello Marcello, tornava a chiedere notizie dei tre arrestati: “… questi picciutteddi che fino hanno fatto?”. Solo che nel passaggio successivo sembrerebbe citare qualcun altro: “Ma con gli altri picciutteddi?”. “A posto, a posto”, tagliava corto Giuseppe, mentre Marcello diceva: “Niente, niente”. Giovanni rilanciava: “… ma pure… ma pure sono immischiati?”. “… no… pure (annuisce col capo, annotano i carabinieri)… lo vedi… non senti niente… belli tranquilli”. E giù risate. Fra i picciutteddi c’era pure il volto nuovo dell’inchiesta?

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07 Settembre 2016, 10:24

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