PALERMO – Di una cosa si dice certo il killer ergastolano Giovanni Di Giacomo: mai ha sospettato che l’imputato Onofrio Lipari sia l’assassino del fratello Giuseppe. Per il resto la sua deposizione al processo è zeppa di “non ricordo”. Alcune risposte finiscono per essere imbarazzanti.
Il testimone nega anche l’evidenza rappresentata dalle sue stesse parole intercettate in carcere. I carabinieri del Nucleo investigativo carpirono segnali di pericolo dopo il delitto commesso nel marzo 2014. Scattò il blitz. Un mese dopo il delitto Giovanni Di Giacomo aveva ricevuto un telegramma in carcere. Il mittente era il fratello Marcello: “Caro Gianni la salute del bambino tutto bene in unico abbraccio ti vogliamo bene”. Secondo gli investigatori, altro non era che la comunicazione dell’imminente vendetta.

Giuseppe Di Giacomo aveva scalato le posizioni di potere, forte della parentela con il fratello, storico componente del gruppo di fuoco di Pippo Calò. Nei mesi della sua ascesa, frenata con il piombo, erano sorti malumori. Ai Di Giacomo, secondo l’accusa, non sarebbe piaciuto l’atteggiamento dei Lipari, ritenuto “troppo distante”, e il loro obiettivo di mettere le mani sugli incassi della sala scommesse gestita dalla vittima.
Giovanni Di Giacomo intercettato disse al fratello di riferire a Tommaso Lo Presti, soprannominato il pacchione, di uccidere i Lipari: “… si preparano fanno l’appuntamento e mentre c’è il discorso fanno bum bum e s’ammogghia tutto”.
Il pentito dell’Acquasanta Vito Galatolo ha raccontato che “Giuseppe Di Giacomo aveva offeso Tommaso Lo Presti che voleva impadronirsi del mandamento e per questo fu ucciso”. Lo aveva saputo da un altro mafioso del quartiere, Vincenzo Graziano: “… forse il Di Giacomo Giuseppe gli avrebbe dato o uno schiaffo a Lo Presti Tommaso, il pacchione, o lo avrebbe offeso con la bocca…”.
Lo Presti dunque, ipotizzando il più classico dei voltafaccia, avrebbe “tradito” i Di Giacomo. Nei confronti di Lo Presti i pm non trovarono riscontri e così sotto processo è finito il solo Lipari.
Tra chi all’inizio non avrebbe gradito la scalata di Giuseppe ci sarebbe stato anche Nunzio Milano, altro pezzo grosso della mafia di Porta Nuova.
Gli omicidi e l’ergastolo
La sua odierna deposizione si svolge in video collegamento dal carcere di Parma. È detenuto dal 1983. Fu lui ad ammazzare Natale Tagliavia, trovato incaprettato il 18 settembre ’81, e Filippo Ficarra, vittima della lupara bianca nel 1982. In carcere, su ordine di Totò Riina, Pippo Calò e Michele Greco, aveva cercato di avvelenare Gerlando Alberti “u paccarè”, lo storico capo della famiglia di Porta Nuova.
Poi è stato pure condannato per mafia nel processo che vedeva imputato anche Onofrio Lipari, arrestato nel febbraio 2023 per l’omicidio Di Giacomo pochi giorni dopo avere finito di scontare la precedente condanna.
Fino ad allora, spiega Giovanni Di Giacomo in aula, “non conoscevo Lipari. L’ho conosciuto per il mandato di cattura del 2014, non sapevo che si sospettasse di qualcuno per l’omicidio”. Eppure nelle vecchie intercettazioni dei colloqui carcerari con un altro fratello, Marcello, poco dopo il delitto, aveva pronunciato il cognome Lipari: “Di Lipari conosco solo un mio coimputato nel maxi processo del 1983. Mio fratello è invalido al 100%, ha avuto un problema al cranio, non è in condizione di formulare pensieri, non sapeva neanche quello che diceva, non era in sé”.
Con Onofrio Lipari, dopo l’arresto, “ho avviato un rapporto epistolare. Mi ha scritto e mi ha fatto piacere perché mi è dispiaciuto per il suo arresto”. Nega persino che avesse discusso col fratello Marcello dell’opportunità di andare al matrimonio di Onofrio Lipari, nel maggio successivo al delitto: “Non ne ho idea”.
Nel 2013 Giovanni Di Giacomo, parlando in carcere con il fratello Giuseppe, fece un riferimento al “nipote del vavetto”. Sarebbe il soprannome di Nunzio Milano, volto noto della mafia Porta Nuova, la cui sorella era sposata con il ‘papa’ della mafia, Michele Greco di Ciaculli. L’ergastolano smentisce il riferimento al boss: “Parlavo di mio nipote, non sa che lo chiamiamo così”.
Sempre nelle vecchie intercettazioni si faceva riferimento allo scontro per la gestione del pannello delle scommesse clandestine, ma il killer offre una lettura diversa: “Si parlava dell’agenzia, di cose lecite”.
“Lo Presti? Non lo conoscevo”
Durante i colloqui, secondo la ricostruzione degli investigatori, Giovanni Di Giacomo per evitare di pronunciare il cognome di Lo Presti, gonfiava le guance fare riferimento al “pacchione”.
La spiegazione spiazza anche la Corte di assise presieduta da Vincenzo Terranova: “È un mio tic, non c’entra nulla. Non lo conoscevo prima, ma solo per il mandato di cattura (anche Tommaso Lo Presti è stato condannato).
Il fidanzamento
C’è poi la storia del fidanzamento. Daniele Di Giacomo, oggi maggiorenne, aveva otto anni nel 2014 quando il padre fu crivellato di colpi alla Zisa. Padre e figlio erano insieme quel giorno. Il giovane, che non crede che Lipari sia il killer del padre, ha una relazione con la nipote del presunto assassino.
Nel corso delle indagini sarebbe emerso che i Lipari in realtà usavano il fidanzamento per organizzare una ritorsione nei confronti dell’assassino del padre: “Non ho idea che qualcuno si lamentasse del fidanzamento, i miei familiari erano contenti. I parenti della fidanzata non lo erano? Impossibile”, taglia corto l’ergastolano. Eppure ampia traccia delle tensioni familiari è rimasta impressa nei nastri magnetici delle intercettazioni con il fratello Marcello e un nipote che fanno parte del fascicolo del processo.
Alla fine Giovanni Di Giacomo chiede di poter dire un’ultima cosa: “Se avessi avuto contezza che fosse stato Lipari ad uccidere mio fratello non avrei mai avuto un rapporto epistolare con lui”.