11 Febbraio 2013, 11:45
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PALERMO – Ci resta solo la fredda verità dei numeri, quelli che ho odiato tutta la vita e che, invece, ora rappresentano, per me e tutti quelli come me (tifosi a prescindere, oggi, domani, sempre) l’ultima luce prima del buio finale: quello della serie B. No, io non mi rassegno e insisto: non è finita, ce la possiamo ancora fare.
E immagino le risate di scherno per questa mia fede scriteriata, che non ha validi punti di appiglio, ma la fede non ne ha bisogno, la fede c’è o non c’è, e quando c’è non ha bisogno di spiegazioni di alcun tipo. Raggranellare un misero punticino nelle due partite interne consecutive, che avrebbero dovuto rilanciarci verso la salvezza; non averlo fatto, fra l’altro, contro due dirette concorrenti, dovrebbe schiarirmi le idee e convincermi a dare ascolto a certi amici, che da mesi mi dicono “E’ finita, rassegnati” oppure “Loro ci perdono la serie A, ma tu peggio: tu ci perdi la salute! Fregatene e la domenica vattene al cinema”. Ma sono veri amici, costoro? Loro dicono di sì ma io penso proprio di no, perché, se lo fossero mi lascerebbero in pace, specie a pochi minuti dal fischio finale del bravo Irrati di Pistoia, ottima la sua prova, e invece il mio telefono di casa è tutto un crepitio di squilli e, dall’altra parte, le voci amiche che mi vorrebbero al cinema o al teatro e non a soffrire per “una squadra ormai condannata”. E allora stacco il telefono e mi concentro sulla mia indomita voglia di lottare assieme ai miei undici ragazzi in maglia rosanero. Stavolta lo faccio via tv, perché il colpo della strega mi inchioda al letto da tre giorni, ma, non ci crederete, lo sento anch’io nelle ossa il gelo del Barbera. Come quei pochi presenti sugli spalti semivuoti, pochi ma buoni, che incitano la squadra, che tuttavia pare non sentirli nemmeno: gli undici rosanero sembrano paralizzati dalla paura, eppure davanti hanno un avversario più spaventato ancora, che fa affidamento solo sul contropiede e si guarda bene dallo scoprirsi alle spalle.
E guardo verso la panchina e scopro un Malesani per me inedito, che se ne sta immobile, non un muscolo della sua faccia ha un fremito, come se quel che gli succede davanti non lo riguardi neppure. Ma non è così, non può essere così per un allenatore sanguigno e passionale come Malesani. La verità è che lui la vede per la prima volta la sua squadra e se la sta studiando con feroce attenzione. Degli undici che ha schierato ne conosce bene appena la metà e, infatti, per la sua prima al Barbera, anzi che ai neo acquisti, si è affidato ai senatori, a Rios, davanti alla difesa e a Donati come regista. Ma i due si pestano i piedi, perché andrebbero meglio se si scambiassero le posizioni in campo e intanto i minuti passano e, tranne le incursioni di Fabbrini, non succede nulla di confortante sul versante rosanero. Anzi, se tra i pali non ci fosse quel portierone di Sorrentino, sull’unica chance del Pescara saremmo già sotto, a metà primo tempo. Insomma, un Palermo inguardabile, roba da rimpiangere persino quello ultima versione di Gasperini, quello che teneva palla, tocchettava di fino e non entrava mai nell’area di rigore avversaria. E mi son chiesto: ma dov’è il Malesani che conoscevo io, quello che appena due stagioni fa prese il Bologna di nessuno (nessun presidente e nessun stipendio pagato per mesi) se lo caricò sulle spalle e lo mise in salvo alla grande? Tutti per uno e uno per tutti, i suoi ragazzi sputavano sangue in campo dal primo all’ultimo minuto. E ad ogni gol correvano da lui e se l’abbracciavano, perché giocavano e vincevano solo per lui, visto che di soldi neanche a parlarne e di dirigenti che garantivano, idem. Era solo lui, Malesani, la garanzia, e ai giocatori, a cominciare dal capitano rossoblù, Marco Di Vajo, bastava e avanzava la sua parola. Malesani, arrivato al Bologna disse: “Non c’è la società, non ci sono soldi? Embè? Avete fiducia in me? E allora sventiamo il solito luogo comune, che noi del calcio siamo solo dei mercenari. Facciamogli vedere chi siamo”.
E io sono sicuro che, dopo un primo tempo bruttissimo, che gli è servito per studiare e capire i suoi ragazzi, nell’intervallo Malesani ha parlato presso a poco come aveva fatto a Bologna a suo tempo e si è vista, nella ripresa, un’altra squadra: combattiva, determinata, coesa. E non solo Fabbrini e le sue incursioni, perché nell’area pescarese si è subito avvertita anche la fisicità di Boselli e, a centrocampo, la regia di Kurtic, entrato al posto di un lento e mai ispirato Donati. Ma si sa com’è il calcio, è il gioco più affascinante che esiste perché nei novanta minuti può accadere tutto e il suo contrario, quando meno te l’aspetti. E infatti, succede che va in vantaggio non il Palermo, che lo meriterebbe, non foss’altro per il gol che s’è divorato Dossena a due passi da Perin, ma il Pescara, su punizione e colpo di testa del neo entrato Bjarnason.
Sembra finita, anche se manca più di mezz’ora, ma quando mai il Palermo ha saputo recuperare, dopo un gol subito? Una sola volta, a Parma, con Budan, ma non fa testo, perché a un minuto dalla fine si fece infilare di nuovo e finì 2-1 per gli emiliani. Sembra finita, ripeto, ma stavolta in panchina c’è uno che anche da lì si fa sentire e si fa capire: qual è infatti, al di là della retorica di rito, la qualità principale di un buon allenatore? Quella di saper cambiare il corso della partita anche nei momenti più difficili e Malesani è uno di questi: lui non ci sta, fustiga la squadra, quasi entra in campo, certo è che il Palermo sembra morso dalla tarantola, dal primo all’ultimo giocatore in campo. Dopo Boselli, l’ho già detto, entra Kurtic e dà il suo, poi Formica, sulla fascia al posto del pur bravo Nelson e parte da lì, da quella fascia, l’azione del pareggio. C’è un cross, anzi è un mezzo cross, che non arriverebbe neanche nel cuore dell’area pescarese se non lo allungasse in tuffo di testa Munoz, diventato da qualche minuto attaccante aggiunto. La palla giunge sui piedi di Fabbrini, che la piazza di giustezza e fa l’1-1. Poi l’assalto finale, vibrante quanto vano, perché le forze sono ormai al lumicino e il Pescara è un fortino, tutto rattrappito davanti al suo portiere. Prendiamo solo un pareggio, che è poco, che è quasi niente, ma s’è vista finalmente l’anima di una squadra. Una cosa nuova, appena un brillio che, però, se si lotta tutti insieme – noi tifosi e la squadra – per altre 14 partite, può diventare una luce vivida capace di condurci fino alla salvezza. E’ un sogno? Può darsi, ma che vita sarebbe senza la capacità di sognare?
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11 Febbraio 2013, 11:45