Pasta di casa mia

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16 Novembre 2014, 09:12

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Isola di Vulcano, la sede abituale delle mie vacanze. E il pomeriggio di una domenica d’agosto di circa vent’anni fa. Alcuni amici che non si rassegnano al passare degli anni affittano il campo di calcetto. Non c’è tanto caldo alle sette di sera. Una delle mogli, accostando un passeggino alla panchina, commenta con una punta di commiserazione gli errori di palleggio del marito. Un’altra, che osserva la ciccia del proprio che ondeggia sotto il bordo di una maglietta ormai troppo stretta, ripete tra sé il consueto proposito di fine estate: “Adesso ci godiamo la vacanza, ma appena torniamo in città ti metto a stecchetto. E il prossimo anno, vediamo chi è che ti sfotte”.

La partita volge al termine. Sul viale segnato dalla filiera di eucaliptus, i piccoli pipistrelli disegnano le imperscrutabili rotte dei loro voli ineguali. Gli “atleti” si attardano sotto le docce commentando le proprie gesta e sottacendo l’abominio di certi controlli di palla più che approssimativi. Che fame dopo cotanto cimento! Qualcuno lancia l’idea: “Perché non ci facciamo una bella spaghettata ?”. E a chi altri, se non a me che ho la casa e che ho perso la partita, può spettare l’onore e l’onere di rifocillare cotanta schiera di atleti affamati?

E così mi presento a casa da mia moglie, come un bimbo dalla sua mamma, seguito dal codazzo dei miei amici del calcetto estivo. Lei, che detesta le mie “improvvisate”, mi fulmina con lo sguardo. Il colpo di genio femminile si materializza alla vista di quell’altra moglie con il passeggino: “Sai che facciamo ? Mentre loro si fanno la loro spaghettata, noi ce ne andiamo in pizzeria sulla spiaggia con i bambini”. Mi sento un idiota: in pochi minuti, una festa “old-style” con gli amici si trasforma in un’emergenza: solo in casa con una decina di lupi affamati e gli spaghetti (naturalmente aglio, olio e peperoncino) da cucinare. La nemesi di mia moglie si completa all’apertura dello stipite della dispensa: ci sono pennette, rigatoni, farfalle, gemelli e maccheroni. Non spaghetti, neanche un filo. E dove li trovo gli spaghetti alle nove di sera di una domenica di agosto? “Niente paura, ragazzi. Adesso vado da Lorenzo, il salumiere che sta qui vicino e che ha la casa sopra il negozio e me ne faccio dare un pacco”.

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Con i dolori ai polpacci da calcetto “scapoli contro ammogliati” che iniziano a farsi sentire, corro a casa di Lorenzo. Sua moglie, cui ho visitato da poco il padre, mi fa entrare in casa mentre sono seduti a tavola, loro sì con un bel piatto di pasta davanti. La mia scusa è più infantile della mia spaghettata: “Lorenzo, mi devi aiutare. Sono arrivati all’improvviso alcuni amici da Palermo e ho dovuto invitarli a cena. Ma gli spaghetti non bastano. Mi daresti un chilo e mezzo dei soliti Barilla ?”. Lorenzo alza gli occhi dal piatto e mi guarda perplesso. Non capisco se il suo sguardo esprima più biasimo per la scelta della pasta o per quella bugia non richiesta. Facendo cenno alla moglie, mi regala ad un tempo un paio di pacchi di pasta e una rivelazione: “Macchè Barilla. Ti do quella che sto mangiando io: si chiama Puglisi e la fanno qui a Milazzo. Provala una volta e poi mi dirai”. Mentre torno verso casa immaginando i miei amici intenti a saccheggiare il frigorifero, mi rigiro tra le mani quel pacco colorato di giallo e rosso, i colori della Sicilia. Gli spaghetti, o Pici, sono più spessi del solito e hanno in superficie un sottile strato di farina che li rende più ruvidi al tatto. Li butto nell’acqua bollente ormai stufa di attendere. Mentre li rigiro ansioso, gli amici protestano. “Ma quanto ci stanno a cuocere questi spaghetti da quattro soldi ?”. Ma certo che ci stanno tanto: sono fatti con il grano vero, il grano del “granaio d’Italia”.

Ad onta delle premesse, quella spaghettata fu un successo memorabile. E non solo per la fame dei miei ospiti. Quel giorno capii che il costo delle merci non sempre è proporzionale al proprio valore e che non è vero che molti prodotti sono famosi perché sono buoni. Anzi, più spesso sono famosi (e costosi) solo a causa della pubblicità. E da allora per molti anni alla fine dell’estate presi l’abitudine di tornare in negozio da Lorenzo per fare la scorta invernale dei Pici Puglisi, introvabili a Palermo. Oggi la Pasta Puglisi (niente a che vedere con il nostro Roberto) non esiste più sugli scaffali dei negozi e sulle mense dei siciliani. E purtroppo ieri ho appreso che rischia di chiudere un altro pastificio siciliano di qualità: il Tomasello di Casteldaccia cui mi convertii dopo quella esperienza. Lo stesso che produce gli anelletti per la Barilla che poi i consumatori acquistano a un prezzo più alto sobbarcandosi le spese del doppio trasporto e della pubblicità insulsa che ci mostra divi del cinema che rovesciano fette biscottate sempre dallo stesso lato e manager con i fusilli nella giacca.

L’auspicio è che i politici e i consumatori siciliani facciano tutto il possibile per non far sparire questo altro esempio di eccellenza siciliana. Impariamo a difendere i nostri prodotti, il nostro lavoro, la nostra terra. Oggi è più importante che mai.

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16 Novembre 2014, 09:12

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