Cronaca

Perdere un figlio: inchiesta|sul dolore più grande che c’è

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06 Settembre 2020, 06:00

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Qualche giorno fa, Luis Enrique, allenatore della nazionale spagnola di calcio, ha ricordato la figlia Xana, una bimba di nove anni anni, per il primo anniversario della sua morte. Lo ha fatto con una semplice immagine sui social: due cuoricini blu che sorvegliano una piccola stella. Quel segno stilizzato rivela la fisionomia del dolore più grande che c’è: perdere un figlio.

Luis e sua moglie, con altri genitori e con altrettanto coraggio, sono in un cammino che ha come unico scopo ritrovarsi, tornare a stare insieme. E’ un confine di gioia ultraterrena, per chi ci crede, ma, forse, è anche raggiungibile da qui, nel procedere accanto al figlio che non c’è più, nel costruire una vicinanza, nonostante la tangibile assenza. I genitori che hanno visto morire i figli, più di altri, conoscono quanto sia luminoso l’impossibile quando, finalmente, si realizza.

“Guarire dal senso di colpa”

“Tanti anni fa, agli inizi della mia professione, incontrai la prima mamma che aveva perso suo figlio – racconta Marco Barone, psicologo e psicoterapeuta -. Ero già padre, dunque ero più esposto, in un certo senso, perché la morte di un figlio è una prospettiva che terrorizza qualunque genitore, anche solo a sentirne parlare. Ti chiedi ed è normale: cosa farei se succedesse a me?”.

Il dottore Barone prosegue il suo racconto: “Il figlio era un disabile grave che la mamma accudiva in ogni momento. Comunicavano con gli occhi, con il battito delle ciglia. Lei non comprendeva come la sua grandissima perdita fosse accolta da alcuni come un sollievo, come l’essersi liberata da una pena. Questo le faceva molto male: che il suo strazio risultasse incomprensibile ai più. E si sentiva sola. Si tratta di una mutilazione incancellabile per un padre e per una madre. La madre la vive nel suo corpo, visceralmente, perché è letteralmente andata via una parte di lei”.

“La strada per convivere con il dolore”

“Ci sono degli elementi comuni in chi affronta un vissuto di quel tipo – continua Marco Barone -. Soprattutto, il senso di colpa di impotenza che va oltre la percezione effettiva della realtà, perché è completamente emotivo. Ti senti in colpa e impotente per non avere protetto tuo figlio, cioè per non avere assolto allo scopo esistenziale di un genitore, per non avere realizzato la vita che ti era stata affidata e che coincideva con la tua”.

“Come uscirne? Cominciando ad accettare il fatto che non ne uscirai mai e cercando, con il tempo, di dare una forma all’accaduto. Può essere utile il confronto con altri genitori che hanno sperimentato la stessa pena. Il punto è trasformare il dolore in generosità, proiettando nel mondo il rapporto con il figlio. Conosco persone che, dopo l’evento, ha scoperto molte cose bellissime che non sapevano del loro ragazzo, grazie agli amici, e questo li ha confortati. Altri hanno deciso di cambiare, di sostenere il prossimo. E hanno scoperto un mondo”.

Alice che vive con gli altri

E’ una scelta immensa l’altruismo, quando sei stato percosso in profondità, con un sisma dell’anima che ha buttato giù tutto. Ma, nel taccuino delle storie, ci sono vicende che prevedono quella strada. Una caduta da cavallo ha portato via Alice Costantini (nella foto), ventidue anni, una ragazza bellissima fuori e ancora più bella dentro. Sua madre, Rosa ha avuto la forza di pensare al prossimo. Una via percorsa da altri: soldati semplici dell’amore che non tramonta.

Rosa Cillari raccontava: “Abbiamo donato i suoi organi. Abbiamo pregato tanto, ho pregato fino allo sfinimento perché si alzasse da quel letto d’ospedale, perché Dio ci regalasse la sua resurrezione. Ora quella resurrezione che abbiamo invocato è un regalo per gli altri. Forse era anche questo il suo compito”.

“Scegliere la donazione degli organi è un’emozione lacerante – diceva Rosa -. Credo che lei l’avrebbe condivisa. Ricordo che, da ragazzina, tornò da scuola turbata e commossa: si era parlato di consenso alla donazione, aveva un opuscolo. Non ne parlammo più, ma sono convinta che lei avrebbe voluto così. Se dico qualcosa della nostra storia, è perché vorrei sensibilizzare tutti sull’argomento. Donare la vita è il più grande gesto d’amore che c’è”.

Livia che ha staccato i piedi da terra

Roberta Bonasera e Angelo Morello sono la mamma e il papà di Livia. Dopo la sua partenza hanno fondato un’associazione a lei dedicata ‘Livia Onlus’ che agisce per il bene, a Palermo e non solo, promuovendo concretamente la solidarietà.

Roberta spiegava: “Io e Angelo eravamo come tanti, chiusi nel nostro mondo. I figli, il lavoro, il quotidiano. Da quando Livia ha staccato i piedi da terra, è come se ci fosse un collegamento col cielo. E non lo affermo perché ho le visioni o perché sono impazzita, è così. Io mia figlia la sento con me… “.

Ho partecipato a incontri con genitori che hanno perso figli. E lì ho capito che c’era comunque spazio per amare, che niente era stato smarrito in eterno, che si poteva ricucire. E proseguire. Sono grata per tutto. Anche per l’assenza. Sono grata perché ho riscoperto la fede. Livia non ha staccato i piedi da terra per questo, ma, nel momento più tragico, qualcuno ha aperto una porta bellissima. E lei è la chiave”.

‘Figli in cielo’

Anche Giovanni e Rosaria Guardì hanno trovato una risposta nella fede. Il loro Giosuè è morto in un incidente stradale a Pioppo, con altri due ragazzi. Entrambi hanno incontrato l’associazione ‘Figli in cielo’ che opera a livello nazionale e adesso coordinano il gruppo di Monreale.

“Cominciamo da un elemento fondamentale – dice Giovanni -. Nessuno è morto. Mio figlio è risorto, non è tra i morti. Dopo la tragedia sono andato a Trapani per un incontro di ‘Figli in cielo’ e lì è scattato qualcosa. Abbiamo capito che dietro la sofferenza si prepara una grande gioia. Ci riuniamo, preghiamo, seguiamo la Messa, con tanti genitori come noi”.

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Rosaria e Giovanni sono stati ricevuti da Papa Francesco, in un appuntamento memorabile. “Quando ce l’hanno detto mi sembrava uno scherzo – racconta ancora il papà di Giosuè -. Questo Papa è un dono di Dio. Mi ha guardato dritto negli occhi, mi ha stretto la mano e io ho capito che sapeva tutto, che capiva tutto. Ci ha anche consegnato una lettera personale”.

Il discorso delle mani

Roberto Garofalo è, insieme, un magnifico dottore e un magnifico scrittore. Nel suo contributo di oggi pubblicato in una pagina diversa del giornale narra una sua esperienza: “Entrai, finalmente, nella stanzetta dove il bambino stava dormendo. Accanto alla sua mano c’era la mano di Linda, perché il contatto con la mamma sa di vita che passa di corpo in corpo, attraverso la pelle, scorrendo dentro le vene. Linda mi guardò e sorrise. Poi si alzò e mi venne incontro, mi accentuò il sorriso e le nostre mani si strinsero. Le voci metalliche cominciarono una liturgia di frasi scontate, su ciò che adesso andava fatto, tornando a casa, iniziando un’assistenza, occupandoci di ciò che sarebbe servito”.

“Le nostre mani non si staccavano. Lei mi chiedeva di ausili e presìdi, di chi sarebbe venuto ad occuparsi di lui, di loro; manteneva un sorriso che pareva inopportuno; io fornivo informazioni utili e rassicuranti. Quel sorriso. E quelle mani che non volevano saperne di staccarsi. Poi, improvvisamente, compresi: mentre noi, le nostre bocche, i nostri visi, parlavano nel codice conveniente del da farsi, le nostre mani stavano parlando fra di loro in un altro linguaggio, su un altro piano, più intimo, nascosto”.

Uno scambio, questo instancabile discorso delle mani, che risponde a una domanda fondamentale: come comunicare con chi si è trovato davanti alla notizia incredibile della morte di un figlio? Come dirgli: siamo con te davvero, siamo qui, a prescindere dal limite che le stesse frasi che pronunciamo rivela?

Ecco una risposta. Ci sono le mani e gli sguardi. C’è il corpo che, con il suo linguaggio immediato, può arrivare dove la parola non sempre sa.

“Un testamento di bene”

Camminavo a passi lenti sulla riva del mare, il sole s’inchinava alla sera e la luce pacata rinnovava i miei pensieri; ricordai la frase di Shakespeare nel III Atto della Tempesta: ‘Tramonterà il sole prima che io possa finire quello che devo sforzarmi di fare’. Carlotta era arrivata nella mia vita in una primavera lontana portando solo gioia e lasciandomi un testamento fitto di bene”.

Così, su LiveSicilia, Ester Bonafede ha ricordato sua figlia Carlotta, con la delicata poesia di una madre.

Parole come un fruscio di ali che rammentano, per le libere assonanze del cuore, il finale di un libro indimenticabile, amato da chi l’ha letto: “Vola libera e felice, al di là dei compleanni, in un tempo senza fine, nel persempre. Di tanto in tanto noi c’incontreremo, quando ci piacerà, nel bel mezzo dell’unica festa che non può mai finire”.

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06 Settembre 2020, 06:00

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