31 Marzo 2021, 06:04
7 min di lettura
PALERMO – All’indomani del blitz che ha compromesso la credibilità della Regione siciliana, minato la fedeltà nelle statistiche giornaliere su morti, contagi e ricoveri Covid a cui la Sicilia, e l’Italia intera, sono appese da più di un anno, e portato alle dimissioni dell’assessore Ruggero Razza resta in piedi la domanda chiave: quale era l’obiettivo? Evitare la zona rossa come mezzo per giustificare quale fine?
Perché una dirigente, due suoi collaboratori e tutti gli altri indagati avrebbero deciso di falsificare i dati “spalmando i morti”, comunicando meno ricoveri e alterando il numero dei tamponi processati per fare abbassare il tasso di positività?
In attesa che le responsabilità penali vengano accertate, il caos gestionale sembra evidente. C’è solo questo? I pm parlano di “contenimento matematico” avallato dall’organo politico. È nella carte dell’inchiesta di Trapani che bisogna cercare le risposte. A cominciare dalle parole usate dal giudice per le indagini preliminari Caterina Brignone, secondo cui, c’è stato “un disegno più generale e di natura politica. Si è cercato di dare un’immagine della tenuta e dell’efficienza del servizio sanitario regionale e della classe politica che amministra migliore di quella reale e di evitare il passaggio dell’intera regione o di alcune sue aree in zona arancione o rossa, con tutto quel che ne discende anche in termini di perdita di consenso elettorale per chi amministra”.
Dunque il fine del presunto grande inganno sarebbe stato il consenso elettorale, da mantenere e incrementare mostrando il volto efficiente di una sanità che da sempre in Sicilia arranca e che di recente è stata travolta da uno scandalo giudiziario che ha coinvolto manager pubblici e imprenditori. Uno scandalo in cui il peso della politica è forte, sia per le connivenze ancora da scoprire sia per le nomine nei posti chiave, decise sempre e solo dai politici.
È la lettura delle intercettazioni, il cui significato va comunque letto sempre tenendo conto del contesto di una conversazione telefonica, a spingere la valutazione del giudice. Alcune frasi, raccolte in cinque mesi di registrazioni da parte dei carabinieri del Nas di Palermo, sono più pesanti e chiare di altre. Al termine del primo step investigativo sarebbe emerso che “ciascun indagato ha fatto la propria parte per contribuire ad uno scellerato disegno complessivo, del quale ha pagato e continuerà a pagare il prezzo la popolazione siciliana”.
Il 4 novembre scorso, quando era ormai certo il passaggio della Sicilia in zona arancione, Maria Letizia Di Liberti (la dirigente regionale da ieri ai domiciliari) parlava con il capo di gabinetto vicario dell’assessore Ruggero Razza, Ferdinando Croce (pure lui indagato). Razza era “seccato, mi disse: il fallimento della politica, non siamo stati in grado di tutelarci, i negozi che chiudono, se la possono prendere con noi, non siamo riusciti a fare i posti letto. Ci dissi ma non è vero, reggiamo perfettamente”.
Ed ecco la paura che l’assessore avrebbe confidato a Di Liberti: la paura di non essere stati in grado di tutelare la Sicilia e i siciliani. La dirigente lo aveva rassicurato “anche se in realtà, non ti dico – continuava il dialogo con il capo di gabinetto – oggi è morta una, perché l’ambulanza è arrivata dopo 2 ore ed è arrivata da Lascari. Ed è morta, e qua c’è il magistrato che già sta, subito, ha sequestrato le carte… 2 ore l’ambulanza. Perché? Perché sono tutte bloccate nei pronto soccorsi. Tutte. Te lo immagini. Cioè che arrivò un’ambulanza da Lascari. Arrivò dopo 2 ore e quella è morta per un infarto… che si poteva benissimo salvare… 52 anni”. Si tratta di un decesso sui cui c’è già un’inchiesta della Procura di Palermo nella quale confluirà quasi certamente anche la trascrizione di questa conversazione.
Parole durissime che descrivevano una situazione che anche Livesicilia ha raccontato nei giorni in cui gli ospedali erano al collasso. Ed è in questo contesto, di fronte ad una sanità in grave difficoltà, che sarebbe maturata l’esigenza di fare “bella figura” per “bilanciare se c’è un buon dato sui guariti, cioè vorremmo dimostrare che anche se c’erano tanti contagi ma c’erano anche tanti guariti”.
Una esigenza che avrebbe spinto la macchina delle statistiche fino a farla deragliare. Di Liberti diceva a Razza: “Poi martedì… ti faccio vedere… sono tutti i positivi… da recuperare… poi li vediamo insieme va bene”. “Ma quanti sono?”, chiedeva l’assessore. “Assai”, era la riposta.
Nella nota con cui Razza si è dimesso dalla giunta regionale ha spiegato che i dati “sono stati riportati in coerenza con l’andamento reale dell’epidemia, tenuto conto della circostanza che sovente essi si riferivano a più giorni e non al solo giorno di comunicazione”. Razza ritiene che la lettura postuma delle intercettazioni ha finito per “contribuire a costruire una diversa ipotesi, ma deve essere chiaro che ogni soggetto con l’infezione è stato registrato nominativamente dal sistema e nessun dato di qualsivoglia natura è mai stato artatamente modificato per nascondere la verità”.
Razza avrà presto la possibilità di spiegarlo al giudice di Palermo dove il fascicolo sarà trasferito per competenza territoriale (ieri si è avvalso della facoltà di non rispondere davanti ai pm che lo avevano convocato a Trapani). Potrà chiarire perché Di Liberti, in uno de tanti giorni di questa maledetta pandemia, chiedesse al nipote e braccio destro Salvatore Cusimano, assunto dalla Regione in quanto vittima di mafia, se i 1773 nuovi positivi registrati in Sicilia il 10 gennaio scorso fossero “… senza recuperi…”. E cioè senza i dati vecchi non ancora conteggiati.
Ci sono altre intercettazioni in cui si parla, più o meno con un linguaggio simile, di morti da spalmare in più giorni e tamponi da aggiungere alla lista di quelli processati. Qualcun altro potrà spiegare cosa c’è di credibile, ad esempio, nel dato sul rapporto fra tamponi e positivi se l’8 novembre scorso a fronte dei reali 5000 test eseguiti Di Liberti diceva: “… ma mettici 2.000 di rapidi… fregatene”.
Se davvero si trattava di dati aggregati e relativi a più giorni ci si troverebbe di fronte a un meccanismo inspiegabile. Non si comprenderebbe la scelta di caricarli un tot al giorno, senza alcun criterio. Sarebbe bastato ammettere le difficoltà o l’impossibilità della raccolta in tempo reale. Di fatto sarebbe tata creata una contabilità parallela. Purtroppo è così che va definita senza per questo dimenticare che ad ogni numero corrisponde una vita spezzata o una vita per la cui cui difesa si combatte nelle corsie degli ospedali. E i numeri dei morti si potevano sistemare a piacimento “perché essendo che ormai sono molti ogni giorno – diceva Di Liberti – se invece di 40 sono 42, 43, non se ne accorge nessuno”.
Un’alta volta la dirigente diceva: “Ruggero ha voluto modificata una cosa, ora appena te lo giro… perché il problema lo sai qual è? Che abbiamo trovato 140 morti mai comunicati”. Mai comunicati da chi? Dalle strutture ospedaliere probabilmente. Lo stesso Razza all’inizio della pandemia aveva fatto notare la lentezza con cui venivano comunicati i dati e aveva chiesto di rimediare.
In assessorato, però, la situazione potrebbe essere sfuggita di mano a chi lavorava al Dasoe. Da qui la “spalmatura” su più giorni di dati che invece di arrivare giornalmente venivano comunicati aggregati dalle strutture sanitarie. Singoli decessi che sommati finivano per essere un numero difficile da comunicare in un’unica volta. Così per non destare preoccupazione potrebbero avere scelto di suddividerli e inserirli successivamente nei giorni in cui il numero reale dei decessi lo avrebbero consentito. Giorno dopo giorno, però, i dati rimasti da parte nel limbo delle statistiche si sarebbero accumulati.
Qualcuno potrebbe controbattere che comunque i dati alla fine sono stati caricati ugualmente e non sono sfuggiti alla statistica. Si può solo sperare che sia andata così, ma fino a pochi giorni fa i conti non tornavano. Chi lo sosterrà saprà come spiegare, ad esempio il bollettino siciliano che il 10 marzo scorso annunciava 592 nuovi contagi.
Un dato frutto di un dialogo captato dagli investigatori fra Di Liberti e il nipote Cusimano, assunto alla Regione in quanto figlio di un uomo ammazzato dalla mafia: “Il problema era il 6, i 600 che sono… basta che c’è un 5, pure se è 595, 596, ma è 5″. Il 5 rendeva meno tragico il bilancio e allora il numero dei casi fu tagliato. Come? “Ho capito. Vabbè ce ne tolgo 3 ad Agrigento”.
E si torna alle parole del giudice per le indagini preliminari: “Ad ogni modo, quale che sia il disegno perseguito, è certo che le falsità commesse non hanno consentito a chi di competenza di apprezzare la reale diffusione della pandemia in Sicilia e di adottare le opportune determinazioni e non hanno permesso ai cittadini conoscere la reale esposizione al rischio pandemico e di comportarsi di conseguenza. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la piena collaborazione di tutti i soggetti indagati, ciascuno dei quali risulta calato in un ruolo nevralgico e, defilandosi, avrebbe potuto mettere in crisi il sistema, considerazione che vale, a maggior ragione, per i soggetti al vertice dell’amministrazione politica ed amministrativa”.
Pubblicato il
31 Marzo 2021, 06:04