11 Ottobre 2020, 06:00
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C’è un bollettino con numeri che fanno persino più paura di quelli relativi ai contagi da Covid. È quello dei posti di lavoro già andati in fumo in questo maledetto 2020. In Sicilia si parla di qualcosa come 75mila posti. E purtroppo ci sono tutte le premesse perché questo sia solo l’inizio. Storici negozi chiudono i battenti a Palermo, i locali del centro si battono per la sopravvivenza in quel deserto che è diventata la parte “nobile” della città nell’era dello smart working. Piccoli imprenditori perdono il sonno alle prese coi conti spietati che minacciano di non risollevarsi per un pezzo. C’è un’emergenza senza precedenti che la legittima preoccupazione per il diffondersi della pandemia non può far passare in secondo piano. È quella di una crisi economica che rischia di lasciare solo macerie, tanto più in una regione che già ha tassi d’occupazione infimi, con una mole enorme di persone che non lavorano. Una mole che rischia di ingrossarsi se non si mette a fuoco che la priorità in questo momento, accanto alla gestione dell’emergenza sanitaria, deve necessariamente essere la salvaguardia delle imprese e del lavoro.
Ci sono interi comparti devastati, dal turismo alla ristorazione. L’illusione del liberi tutti estivi ha portato un fugace ristoro che è durato il tempo di un amen. Ma adesso che l’autunno ha bruscamente riportato tutti con i piedi per terra, adesso cincischiare non è più possibile. I sindacati e le associazioni di categoria sgranano rosari di numeri agghiaccianti. Le misure fin qui adottate hanno avuto l’effetto di pannicelli caldi ma ora che l’illusione di una emergenza breve sta sfumando, ora che si mette sempre più a fuoco che la convivenza con il virus sarà lunga più di quanto le spalle delle nostre piccole e medie imprese possono reggere, appare quanto mai chiaro che serve molto di più di quanto fatto finora.
C’è un pezzo di carta di cui gli italiani si ricordano con improvviso orgoglio solo ogni tanto, dimentichi del sangue e del sudore che lo hanno generato. È la Costituzione. Che indica a chi oggi ha responsabilità di governo la priorità. La si legge nel primo degli articoli della Carta. Quello che afferma che la repubblica è fondata sul lavoro. Al 30 giugno di quest’anno, secondo l’Istat, i posti di lavoro andati in fumo in Italia sono stati 578mila. È un’ecatombe che impone sforzi e misure straordinarie, ben più incisive di quelle messe in campo fin qui.
Sull’impresa che dà lavoro occorre concentrare tutti gli sforzi, altro che bonus a pioggia, di cui beneficiano anche quei pezzi di Paese che di questa crisi economica non avvertono i morsi. Il pubblico impiego, al netto di qualche marginale eccezione, è rimasto fin qui al sicuro da ogni angoscia figlia della crisi economica da Covid. È sul privato, sull’impresa e su chi nell’impresa lavora che si è scaricato il costo di questa crisi, ed è sull’impresa che si deve rovesciare ogni possibile risorsa disponibile, ogni centesimo che si può raggranellare, per arrestare quell’emorragia di lavoro di cui il blocco dei licenziamenti ha solo rimandato il tragico aggravarsi.
Servono soldi veri, non le favole dei prestiti garantiti, una misura fallimentare di cui si sono giovati solo i soliti noti, la grande impresa assistita, secondo un antico e collaudato copione italico. Servono soldi veri dallo Stato e tempi celeri da chi le misure deve attuare. Non è pensabile, ad esempio, che si proceda al passo che ha avuto la Regione siciliana, cinque mesi e passa per cominciare ad attuare le misure della finanziaria d’emergenza, con tanto di disastroso capitolo click day, disastro annunciato tra parentesi. Serve una pubblica amministrazione che restituisca al resto della comunità il privilegio dei suoi stipendi blindati e garantiti malgrado qualsiasi crisi, offrendo risposte rapide. Serve una politica che rinunci alla tentazione di ingraziarsi fette più ampie di consenso mettendo al primo posto la salvezza di quel lavoro che soprattutto al Sud era già una mezza chimera in tempi di pace, figuriamoci adesso.
Salvare le imprese, salvare chi lavora nelle imprese. Accanto al salvaguardare la salute dei cittadini, questa oggi è l’unica vera priorità. Esiste una strada maestra: la decontribuzione. Abbattere sensibilmente il costo del lavoro. E non con le misure timide e quasi impercettibili introdotte nelle settimane scorse dal governo. Non è tempo di carezze, non si può curare un moribondo con l’aspirina. Ci sono dei soldi? Si mettano tutti lì. Le chiacchiere su migranti e invasioni da una parte e pericoli di fascismo dall’altra che infarciscono gli insulsi dibattiti politici quotidiani stanno a zero. Chi deve, faccia qualcosa per non essere consegnato alla storia come il boia di generazioni intere.
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11 Ottobre 2020, 06:00