20 Luglio 2014, 07:49

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Agli inizi del 2014, in Sicilia, nel corso del Convegno scientifico “L’Obesità in Sicilia” organizzato con il patrocinio dell’Assessorato alla Salute della Regione Siciliana, è emerso un dato allarmante per la salute pubblica. Quasi la metà (il 47%) della popolazione residente in Sicilia è affetta da eccesso ponderale: più di tre milioni di persone hanno problemi di peso di tipo grave. Sono più di 2,3 milioni i siciliani in sovrappeso e quasi 800.000 quelli che soffrono di obesità, pari rispettivamente al 35% e al 12% dell’intera comunità. Inoltre, secondo il Piano Sanitario Regionale, in Sicilia si registra la più alta concentrazione di bambini obesi d’Italia. Una grande emergenza sociale, dunque, visto che l’obesità è considerata una vera e propria malattia.

Ma accanto a questo tipo di patologia, che colpisce particolarmente e per ovvi motivi, i paesi più industrializzati, nasce un nuovo malessere. L’obesità da troppa informazione. Una nuova forma di sovrappeso, dunque, quello mentale. L’ennesimo neologismo definisce l’abnorme crescita del carico quotidiano di input – notizie, impressioni, opinioni, messaggi personali – che, mediante le tecnologie digitali, prendono d’assalto le nostre facoltà mentali, quali l’attenzione, la comprensione, la memoria. Negli ultimi sette anni, dire che l’uso della posta elettronica è aumentato sarebbe un eufemismo: le email giornaliere si sono moltiplicate in maniera esponenziale, passando da 31 a 182,9 miliardi nel 2013. E se c’è chi le scrive, ci sarà chi le legge. I video messi su YouTube, 11.500 ore al giorno, adesso sono pari a 144.000 ore. E se c’è chi li carica, ci sarà chi li guarda. In questa catena infinita, Twitter, agli albori, contava cinquemila tweet quotidiani, che oggi sono oltre 500 milioni. Questo numero significa che i cinguettii sono 5.800 al secondo, così come gli utenti di Facebook condividono 3,3 milioni di post ogni minuto.

Il “data boom” è stato analizzato in un articolo della Thomson Reuters, una delle più potenti società di informazione economico-finanziaria al mondo, pubblicato sul New York Times il 19 maggio scorso, con il titolo Signal through the noise. Battling data overload in the age of infobesity (Segnali attraverso il rumore. Combattere la sovrabbondanza di dati nell’era dell’infobesità). L’epidemia di infobesity è ormai diffusa a livello mondiale; gli eccessi segnalati provocano una serie di conseguenze negative, a partire dall’incapacità di selezionare, e quindi di interpretare, una marea di cognizioni, che induce a prendere decisioni sbagliate, tanto che persino Google è incorso in tremendi errori. Bisogna, insomma, evitare il rischio di mangiare troppo anche se si è stati invitati a un invitante buffet intellettuale. Si può aver bisogno di risorse durante il giorno, e accumularne in fretta di pesanti e poco significative potrebbe poi non lasciar spazio a quelle necessarie.

Rifacendosi dunque all’affinità tra l’abbuffata di dati e quella di cibo, vengono offerti una serie di strumenti attraverso i quali filtrare le informazioni in modo selettivo, proprio come fa la Weight Watchers (questo è l’esempio addotto, dato che la nota associazione è estremamente popolare nei paesi anglofoni) relativamente alla costruzione della dieta: sceglie gli alimenti adatti e sani da un vastissimo mercato cosicché, piuttosto che cadere in tentazioni incontrollate, si possano consumare quelli corretti, e, per di più, nei quantitativi e nei tempi giusti. Gli antidoti ai comportamenti sbagliati, nel profluvio di notizie offerte, vanno dal separare quello che è importante da quello che non lo è alla pre-selezione degli argomenti che realmente ci interessano, fino alle “ricerche intuitive” condotte mediante l’uso di un aiuto tecnologico. Tra essi, appare di particolare interesse il “data agnosticism”, quell’atteggiamento mentale di agnosticismo verso l’offerta di dati che tutti coloro i quali sono chiamati a prendere decisioni, devono assumere per contrastare l’infobesity, anzitutto con il valutare il proprio bisogno di informazioni e poi col definire quali siano i dati che veramente possono aiutarli nel conseguire il corretto risultato. Potrà persino accadere che si rivelino di maggior valore gli strumenti con la flessibilità necessaria per valutare input molto diversi, come dati numerici, clip, video e altro, da rendere accessibili attraverso una varietà di spazi di lavoro personalizzati. Come si vede, stavolta il suggerimento lascia da parte la tecnologia e si rivolge piuttosto al fattore umano, al buon senso, a un esercizio di volontà volto a riappropriarsi del controllo delle fonti delle notizie per verificarne l’attendibilità. Insomma, per combattere la bulimia, anche se di dati, non è sufficiente stare a dieta, ma occorre un nuovo atteggiamento psicologico.

Per rimanere alla metafora alimentare, l’affermazione di massa è il carboidrato della mente. A dirlo è Clay Johnson, che nel libro The Information Diet ci ricorda che proprio come una azienda alimentare impara presto che se vuole vendere in gran quantità basta confezionare con zucchero sale e grassi, a basso costo, i cibi che la gente desidera, le compagnie mediatiche sanno che un’affermazione vende molto meglio che un’informazione. Un’eco della teoria sulla ripetizione della bugia di Joseph Göbbels? E’ probabile. Johnson spiega difatti che oggi più che mai una “dieta sana” è necessaria proprio partendo dal rapporto tra potere e mezzi di comunicazione di massa. La società contemporanea soffre per l’eccessiva assunzione di notizie abbondanti (ovvero, quantitativamente troppe) e sbagliate (qualitativamente scadenti), e sembrano impotenti a fronte di questo bombardamento mediatico. Il recupero di sane abitudini relative al “consumo”, oltre ad aumentare produttività ed efficienza, garantisce la salute personale, e anche quella della società presso la quale si lavora. Proprio come il cibo “spazzatura” porta all’obesità, informazioni-spazzatura provocano nuove forme di ignoranza: imporsi una dieta creerà un quadro di riferimento per un nuovo e proficuo uso dei dati, che renda chiaro cosa cercare, cosa evitare e come essere selettivi .

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Siamo dunque alle strategie di resistenza. La notizia è del 21 maggio scorso. Microsoft UK ha annunciate i risultati di uno studio recente, denominato Defying Digital Distraction, commissionato all’agenzia di ricerca YouGov. Si è rilevato che più della metà degli impiegati britannici sperimenta quel “sovraccarico da informazioni” che costituisce l’infobesity. Il dato non è poi così sorprendente: basta camminare per strada -evitando i pedoni che prestano più attenzione ai loro smartphone che a dove mettono i piedi- per realizzare la portata della nostra dipendenza digitale, sia nel tempo libero che sul lavoro. L’obiettivo del rapporto è segnalare e sconfiggere l’infobesity dei lavoratori, ovvero contribuire ad indurre un cambiamento di atteggiamento finalizzato a un approccio più sano alla tecnologia e alla enorme quantità di informazione che crea. Solo il 35% di impiegati ammette di cercare qualche distrazione ogni tanto online, per rompere la monotonia giornaliera. Di contro, appare preoccupante che il 40% dei dipendenti controlli costantemente i dispositivi mobili nel caso in cui qualcosa di importante arrivi dal lavoro, sebbene il 49% non ritenga affatto motivato restare costantemente connessi; il 45% degli impiegati ritiene di dover rispondere a email di lavoro istantaneamente, non importa dove sia o che cosa stia facendo; il 55% ha un sovraccarico di informazioni scaricate; il 43% come risultato, è stressato e il 34% si dichiara totalmente sopraffatto. Il 52% continua a guardare il proprio smartphone o tablet a casa, per controllare se vi siano novità riguardo al lavoro, fino a 15 minuti dopo essere andati a dormire. Molti intervistati sono sempre più frustrati dalla continua insistenza con la quale si richiedono ai collaboratori competenze specifiche, quando è chiaro che flessibilità e adattabilità sono doti ben più importanti, destinate ad essere la chiave del successo futuro delle imprese. Le aziende che utilizzano la tecnologia in modo sostanziale, e con come semplice supporto, dovrebbero lasciare un margine per la creatività anche ai dipendenti che usano costantemente i computer se vogliono creare un po’ più di benessere e un po’ meno stress.

Il potere della tecnologia, e della emergente “cultura dei dati” appare evidente, ma non dimentichiamo che costituisce anche un affare gigantesco. Insomma, le macchine stanno assumendo il controllo, e siamo sommersi da un vero e proprio diluvio digitale, che potrebbe travolgerci. Occorre una “riscossa degli umani”, che, piuttosto, ne sfruttino le opportunità, dominando per non essere dominati, e, infine, ristabilendo un equilibrio.

E poiché da tempo ormai si vanno proponendo alcune strategie per distogliere dall’ossessione dell’uso dei media digitali e, come si suol dire, il buon giorno ha inizio al mattino, è alla educazione genitoriale che vengono demandati i principali compiti di prevenzione, più che di rimedio. Le indicazioni appaiono banalmente semplici, condensate in quattro regole auree. Non permettere ai bambini di portarsi giocattoli a letto (ben presto si porterebbero lo smartphone). Lasciare che la domenica resti un giorno “sacro”, un tempo intenzionalmente sottratto al lavoro, durante il quale dedicare attenzioni ai bambini piuttosto che usare telefoni, computer e quant’altro. Andare nei campi a giocare, perché stare all’aperto è un valore aggiunto (e si pensa meno ai “giocattoli” digitali); smettere di sprecare tempo ed energie, ad esempio eliminando l’abitudine di rispondere immediatamente ad ogni messaggio e mettendo un punto fermo, a una certa ora, al lavoro, senza “portarselo a casa”. Forse, sono quelle buone piccole cose che tutti abbiamo imparato. Ma adesso, toccherebbe metterle in pratica.

 

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20 Luglio 2014, 07:49

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