Senza Ars né parte

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07 Giugno 2012, 09:07

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Nella scena finale de “I Pagliacci”, il clown Canio uccide la moglie e si rivolge alla platea, sussurrando: “La commedia è finita”. E’ quasi una perfetta metafora di quello che sta accadendo all’Ars. C’è un cadavere, c’è un assassino. Solo che sulla commedia, anzi sulla farsa, non è calato il sipario. A parole, tanti ci stavano. E convergevano sulla rotta indicata dalla campagna di Livesicilia “Stopars”. A parole, l’esigenza della moralizzazione di un parlamento inerte – auspicata da noi che abbiamo chiesto con le dimissioni un atto di responsabilità – era condivisa e irrinunciabile. A parole, era non più differibile una ripulitura dei corridoi del potere, per spazzare via la sporcizia accumulata. Nei fatti è andato in scena uno spettacolo tragicomico. La rappresentazione classica di un privilegio che ha un compito in esclusiva e lo avverte come unico dovere: la sopravvivenza. Il perpetuarsi. La conservazione degli spiccioli corposi, in soldi e appannaggi, che differenziano la casta dalle persone normali. La trincea, metro per metro, per preservare la poltrona e prepararsi alla rischiosa sfida delle elezioni.

Gli onorevoli senza arte né parte hanno paura di ritrovarsi pure senza Ars. Senza Ars né parte. Vivono nel sistema corruttibile di questa politica. Respirano i miasmi di questo universo clientelare. Sono padri e figli di un degrado che li ha resi infrangibili e lontani, dietro lo schermo di un palazzo protetto. Fuori si sentirebbero nudi e crudi. E’ stato un balletto, con l’immobilismo in coda. Nessuno – messo alla prova delle cose – ha avuto il fegato di mandare all’aria la legislatura, percorrendo la strada delle dimissioni o della mozione di sfiducia. L’interesse cinico della casta confluisce nel traccheggio, nella melina. E non c’è differenza tra coloro che prestano la maschera a roboanti battaglie intestate a nobilissimi principi nel ring pubblico del dibattito. La necessità di mummificazione si tramuta in consociativismo. Come ha detto un nobile filosofo contemporaneo, casualmente prestato al pallone: “Meglio due feriti che un morto”.

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Ma il morto c’è. C’è un cadavere e c’è un assassino. Il killer ha il volto plurale di un’aristocrazia che schiaccia i sassi, pur di non cedere. La vittima è la Sicilia, costretta a subire, talmente masochista da mandare nell’alto dei cieli sempre le stesse impunità. Perfino l’indignazione suona uno spartito stonato. Ci siamo indignati ieri. Ci indigniamo oggi. Ci indigneremo domani. Come tirare fiori contro un portone di ferro, sperando di abbatterlo. La rabbia è la compensazione della nostra impotenza. Noi scriviamo, noi leggiamo, noi sopravviviamo, noi costruiamo una speranza difficile. Loro restano lì, immutabili e secolari. Non c’è una crepa nel marmo del potente che si promulga. Non c’è un battito. La dignità è un lusso concesso a chi non possiede altro.

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07 Giugno 2012, 09:07

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