Trattativa, sentenze a confronto| Il grande cortocircuito giudiziario

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16 Febbraio 2020, 17:28

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Dal numero di I love Sicilia in edicola, pubblichiamo la rubrica di Felice Cavallaro, questo mese dedicata all’assoluzione di Calogero Mannino. 

Ma che storia ci hanno raccontato su questo presunto pasticcio della trattativa Stato mafia? Quesito legittimo dopo la sconvolgente lettura delle motivazioni depositate nei primi giorni del 2020 dalla corte di appello che sei mesi prima aveva assolto Calogero Mannino, per la seconda volta. A suggello di 25 anni di processi e arresti.

Il corto circuito giudiziario è sotto gli occhi di tutti. E va ben oltre il semplice possibile errore giudiziario contemplato dall’ordinamento. Qui è in discussione una politica giudiziaria che ha prodotto fiumi di inchiostro non solo in atti processuali, ma purtroppo anche in una produzione editoriale alla quale non sono rimasti estranei i protagonisti di indagini e processi. Parliamo anche di chi, ai vertici di procure della Repubblica o procure generali, ben oltre il cerchio sacro del processo penale, ha azzardato l’ipotesi di offrire al Paese fra libri e talk show la ricostruzione sulla cosiddetta vera storia d’Italia. Davvero difficile dimenticare i collegamenti tv transoceanici di qualche pm ospite fisso di trasmissioni d’attacco, ovviamente rappresentando il Male contro il Bene finché un comico imitandolo l’ha denudato.

Primo step di questo “storia” che rischia di essere declassata a una drammatica storiella è, in grande sintesi, il (presunto) terrore provato da Mannino nel marzo del 1992 quando, appena ucciso Salvo Lima, avrebbe capito che il prossimo morto sarebbe stato lui. Di qui i suoi contatti con i Ros dei carabinieri, con alti ufficiali come Subranni, Mori, De Donno per avviare, appunto, la trattativa attraverso Vito Ciancimino.

Andò così, come sostenuto dagli accusatori, fra i quali l’ex magistrato Ingroia, i suoi colleghi Teresi, Tartaglia, Di Matteo, per non dire di Caselli, fino a Scarpinato e tanti altri?

È affermativa la risposta della corte presieduta da Alfredo Montalto. La corte del grande processo avviato alcuni anni fa in primo grado contro quei tre carabinieri. Alla sbarra con boss come Riina, con pentiti come Brusca, con un testimone traballante come Massimo Ciancimino. E hanno condannato tutti. Partendo da quel primo step analizzato senza l’imputato eccellente, lo stesso Mannino, che aveva frattanto scelto, come prevede l’ordinamento, un altro rito, il cosiddetto “abbreviato” che di abbreviato ha poco. Infatti, nell’altro processo, non quello di Montalto, siamo arrivati alle due assoluzioni in primo e secondo grado dopo un quarto di secolo. Al di là delle sofferenze personali e familiari di Mannino, a noi importa mettere a confronto i due verdetti di assoluzione con la sentenza Montalto che, invece, condanna tutti per la (presunta, ripetiamolo) trattativa avviata dall’ex ministro, ridotto al rango di padrino con un piede nella politica e l’altro nella mafia.

In oltre mille e 100 pagine il collegio d’appello presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini, spiega perché Mannino sia “innocente”, contrariamente al canovaccio della propinata Storia o della “storiella”, se preferite. E ciò si sostiene con una rigorosa analisi che fa venire il mal di testa perché si sancisce che la stessa trattativa sarebbe addirittura ”una remota illazione”. Contraddicendo totalmente altri magistrati, per la verità quasi sempre gli stessi pm d’accusa, fatta eccezione per qualche pensionato, per chi ha preferito qualche lido romano o per chi è saltato in politica rompendosi l’osso del collo.

Una “remota illazione”? È un’immagine demolitoria dopo le Samarcanda e gli Anno zero che ci siamo sorbiti, dopo i pamphlet editoriali in parte firmati da alcuni di questi stessi magistrati, Ingroia e Caselli in testa, peraltro senza mai chiarire buchi neri come la mancata perquisizione della villa di Riina.

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Quel presunto e oscuro negoziato fra Stato e mafia, ipotizzato dalla Procura di Palermo si è dunque dissolto (per il momento) nelle motivazioni della corte di appello che ha assolto per la seconda volta l’ex ministro della Sinistra democristiana. Un verdetto che finisce per smontare l’impalcatura del processo parallelo, quello concluso in primo grado con le condanne dei mafiosi, di Marcello Dell’Utri e di carabinieri come il generale Mori, il generale Subranni e l’allora capitano De Donno.

L’iniziativa degli ufficiali del Ros, che ci fu, viene considerata dai giudici di appello un’operazione info-investigativa di polizia giudiziaria. Peraltro comunicata da Mori e De Donno al loro diretto superiore gerarchico che allora era Subranni e realizzata attraverso la promessa di benefici personali all’ex sindaco Ciancimino. Il tutto secondo una tecnica (disinvolta?) di quel gruppo che per maestro di questo stesso metodo investigativo, “promesse” comprese, ha avuto il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, come osservano nelle mille e cento pagine i giudici di appello. E se Dalla Chiesa è considerato un eroe antimafia, anche come anticipatore di quel metodo, pronto a colloqui border line o a infiltrazioni, perché lo stesso non dovrebbe valere per chi adotta la sua tecnica investigativa?

Il quesito avanzato dai giudici ci porta a tutti i dubbi iniziali espressi da Giovanni Fiandaca, il cattedratico che non ha mai creduto n’è alla trattativa né all’acrobatico reato proposto da tanti pm, paradossalmente suoi ex allievi di procedura penale.

Adesso siamo davanti a due verità che fanno a pugni. La verità dei pm, presa per buona dalla corte di assise con Montalto presidente, già da qualche tempo al vaglio dell’appello. E la verità dei giudici di Mannino, convinti che l’imputato assolto abbia rischiato di essere ammazzato per il suo impegno antimafia.

Dicono che la contraddizione rientri nelle ipotesi possibili. Ma credo che 25 anni per capire davvero cosa sia accaduto siano troppi. Soprattutto se, come pare, l’ostinazione determinerà un ricorso in Cassazione che forse non riguarda più un vecchio uomo politico ormai azzoppato, ma tutti noi che abbiamo vissuto pagine dolorose, scrivendone, declamando, parlandone ai convegni. Proprio come forse farebbero meglio ad evitare i pm e gli ex pm di quei processi. Continuare a declamare fra media, giornali e Tv senza mai un riferimento a questo corto circuito, come se nulla fosse accaduto, risulta quanto meno sorprendente.

Avrebbero invece uno spazio all’interno del ”cerchio sacro”, a cominciare dall’inaugurazione dell’anno giudiziario dove ovviamente si parla di corruzione, di mafia inabissata, di Messina Denaro e colletti bianchi. Occasione di bilanci. Ma con una omissione che pesa sulla credibilità di tutti.

 

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16 Febbraio 2020, 17:28

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