Cronaca

Nessun accordo con i boss, ma si parla ancora di trattativa

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09 Agosto 2022, 11:00

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PALERMO – Fu “molto più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria”. Piuttosto viene definita “una operazione di intelligence”.

“Improvvida” sì, ma non fu una trattativa nel senso del patto sporco e maleodorante fra boss e rappresentanti delle istituzioni così come da più di un decennio la pubblica accusa l’ha definita. Non solo nelle aule di giustizia, ma anche nei talk show televisivi, nei libri, nelle sceneggiature cinematografiche. I pubblici ministeri sono diventati i detentori della verità, in assenza o quasi di contradditorio nel pubblico dibattito.

La premessa, che va sempre tenuta a fuoco, è che i carabinieri sotto processo sono stati assolti. Assolti nonostante la narrazione da romanzo storico imperante, a cui ad onore del vero offre il suo contributo anche la Corte d’assise di appello di Palermo.

Perché al di là dell’esito processuale ciò che disorienta è il fatto che ognuno sulla stagione delle stragi di mafia mette per iscritto una sua verità. E non importa che ci siano delle sentenze passate in giudicato dalle quali emerge il contrario di ciò che si sostiene oggi.

Lo fanno i rappresentanti dell’accusa e pure i giudici. Un fatto non viene analizzato nella sua essenza processuale per rispondere alla domanda: è avvenuto o no? Una volta trovata la risposta giudiziaria (e non sempre ci si riesce), di quel fatto si offre una interpretazione che finisce per essere diversa da quella proposta da altri.

Oltre 2.900 pagine di motivazione

La Corte di assise di appello, presieduta da Angelo Pellino, scrive 2.900 per spiegare perché sono stati assolti i carabinieri e Marcello Dell’Utri e condannati i mafiosi. Un lungo viaggio nel processo e nella storia. Tema delicato che merita di essere sviscerato, ma in quasi tremila pagine si colgono angolazioni e sfumature che si prestano al gioco della multi interpretazione.

Un punto fermo

Si parta almeno dai punti fermi, per sgombrare il campo dagli equivoci. A pagina 2.190 i giudici scrivono: “Sebbene fosse molto più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, essa non era affatto diretta a creare le basi di un accordo ‘politico’ con gli stessi autori della minaccia mafiosa, accettando il rischio che ne uscisse rafforzato il proposito di rinnovarla o di specificarla, ed anzi strumentalizzando tale rischio per indurre il governo a fare delle concessioni, sia pure come male necessario per prevenire nuove stragi ed arrestare l’escalation mafiosa. Al contrario, l’obbiettivo era disinnescare la minaccia mafiosa, incuneandosi con una proposta divisiva in una spaccatura che si confidava già esistente all’interno di Cosa nostra, per volgerla a favore di una disarticolazione e neutralizzazione dello schieramento e della linea stragisti”.

Dunque quando il generale Mario Mori e il captano Giuseppe De Donno cercarono di interloquire con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, non avevano alcuna intenzione di rafforzare la minaccia mafiosa allo Stato, bensì volevano evitare altre stragi. Il fatto non costituisce reato.

Potrebbe bastare questo per archiviare il processo e bocciare per sempre la tesi trattativista. Ed invece no. Nelle motivazioni, oltre ai giudizi poco lusinghieri sul modo di operare dei carabinieri, si addensano ombre e sospetti.

Il covo di Riina

I carabinieri del Ros non perquisirono il covo di Riina per lanciare un messaggio e manifestare la loro predisposizione a trattare con il “moderato” Provenzano. Vabbè almeno su questo gravissimo sospetto ci saranno prove. No, almeno non quella “che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano” per la consegna di Riina in cambio della mancata perquisizione del covo e di un lasso di tempo utile per ripulire la villa di via Bernini.

Poi, una volta arrestato Riina gli stessi carabinieri consentirono una latitanza sotf a Provenzano. Potevano arrestarlo ed invece cincischiarono per far capire che era meglio per tutti, anche per il boss, non proseguire con l’attacco allo Stato.

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Provenzano, latitanza soft

Dunque Provenzano sarebbe stato il protagonista di un un Truman show della latitanza fino al giorno della messinscena della cattura a Montagna dei cavalli perché “c’erano indicibili ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della sommersione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”.

Ora si dice anche che non fu la trattativa ad accelerare la morte di Paolo Borsellino. Una circostanza, quest’ultima, postulata nel processo di primo grado. Postulata perché, così dissero allora i giudici, siccome sul campo null’altro c’era se non la trattativa (tutta da dimostrare) allora doveva essere stata essa stessa la causa dell’accelerazione. I giudici di appello ora scrivono che fu semmai il dossier “mafia e appalti” su cui lavoravano i carabinieri e Borsellino a spaventare Riina.

Nuoci capitoli

Si potrebbe proseguire nella lettura delle motivazioni, scandagliando quelli che vengono definiti “nodi irrisolti e perplessità sopite”, oppure “divagazioni” per approdare ai “primi tasselli per una nuova lettura della vicenda”. Un’altra? Meglio di no. O meglio (scusate per il gioco di parole) si continui a studiare, analizzare, scavare ma i processi si facciano per capire se un imputato abbia commesso o meno un reato.

Ci sarà un ricorso in Cassazione da parte della Procura generale. La narrazione sugli infingardi di Stato e traditori in divisa proseguirà perché in quasi tremila pagine ci sono già gli spunti per i nuovi capitoli del romanzo criminale.

“È provato che la risoluzione concertata tra i capi di Cosa nostra nelle riunioni seguite alla cattura di Riina fu nel senso di rimettere mano ai delitti eclatanti (…) l’obiettivo era proprio – e più che mai – quello di costringere lo Stato a trattare: anzi, di costringerlo a tornare a trattare”.

E si arriva agli attentati del ’93 a Roma, Firenze e Milano. Tra i capimafia “ne erano al corrente Matteo Messina Denaro, come lo stesso Brusca apprese dalla viva voce di Riina – scrive la Corte – nonché Bagarella e Provenzano. Ne era al corrente anche Giuseppe Graviano”.

Il pentito di Brancaccio Gaspare Spatuzza ha raccontato che in summit a Campofelice di Roccella Graviano disse che era tutto pronto per una nuova ed eclatante azione.

Il fallito attentato all’Olimpico

Il 23 gennaio 1994 non esplose l’ordigno che allo stadio Olimpico di Roma avrebbe ucciso chissà quanti militari. Il telecomando non funzionò.

I giudici scrivono che “non si può non convenire con la valutazione espressa dalla corte di primo grado secondo cui “Spatuzza ha confermato in termini inequivocabili che obiettivo dell’attentato erano proprio e specificatamente i carabinieri e che lo scopo ultimo era di costringere chi di dovere a riprendere la trattativa interrottasi per fare ottenere benefici soprattutto ai mafiosi detenuti in carcere e non quella di vendicarsi per essere stati i carabinieri gli autori della cattura di Riina”.

La decisione di riprendere l’attività stragista ebbe “come suo postulato la pregressa trattativa che si era svolta nell’estate nel 1992”. È chiaro che di capitoli da scrivere ce ne sono altri.

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09 Agosto 2022, 11:00

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