05 Maggio 2016, 15:05
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PALERMO– “Mio padre ha avuto un ictus ventiquattro ore fa e siamo ancora in attesa di andare in reparto. Mia sorella ha passato la notte qua, ora ci sono io. Non c’è nemmeno una sedia per riposare. Ma è giusto?”. Grazia Maranzano veglia un vecchietto in pigiama, in una delle sale del pronto soccorso del Civico. E’ fuori di sé; gli occhi fiammeggiano di ira repressa. Non sa con chi prendersela, vuole solo sfogarsi. Ripete: “E’ giusto trattare le persone così?”. Dalla barella accanto, un signore anziano scuote la testa: no, non è giusto.
Seconda puntata dell’inchiesta di LiveSicilia sui pronto soccorso di Palermo: il protagonista è l’ospedale cittadino per eccellenza. Una premessa: non spariamo sulla croce rossa; nella massa dolente di corpi accatastati, pantofole e coperte termiche che sporgono dalle barelle, i medici e gli infermieri non hanno colpa alcuna e avvertono il disagio di chi fronteggia un disastro, tentando di raccogliere il mare del dolore col cucchiaino dell’assistenza.
Il signore anziano che scuote la testa si chiama Francesco Colletti, viene da Sciacca e aspetta un posto letto da lunedì. Di fianco a lui, la figlia racconta: “Siamo andati al pronto soccorso della nostra città e non c’era spazio per un ricovero. Papà è stato meglio e siamo venuti a Palermo, sperando di avere più fortuna, invece…”. E’ la radiografia di un piccolo inferno prodotto dall’incapacità della politica di governare la sostanza e il contesto in cui gli esseri umani si sentono più deboli. In tanta fragilità, ognuno sceglie di farsi coraggio come può.
Salvatore Mormino racconta la sua storia di pena, bisbigliando. E, mentre parla, si aggrappa al braccio del cronista, come se non volesse lasciarlo più, come per supplicare un’evasione impossibile. Intanto, sulle guance gli cade qualche lacrima. Il manager del Civico, Giovanni Migliore, compulsa i dati sul suo telefonino: “Adesso abbiamo una settantina di pazienti nell’area d’emergenza. Ci sono otto codici rossi, quarantadue gialli e diciannove verdi”. Una scala di affollamento dalla situazione più critica a quella meno grave. E non è una giornata tremenda.
Pronto soccorso che vai, disagio che trovi, a prescindere dalla dedizione dei camici bianchi e dalla buona volontà dei direttori. Ma perché deve essere così? Perché, ovunque, i lamenti, le grida, le lettighe in corridoio, in crescita esponenziale a seconda della grandezza del nosocomio? Romano Tetamo è un bravo dottore, col vizio imperdonabile dell’umanità. E’ il capo dell’area d’emergenza. Prova a spiegare: “E’ come un imbuto che a un certo punto scoppia. I problemi sono a monte e a valle. Uno che sta male, viene qui, qualunque cosa abbia, perché, sul territorio, le risposte alternative sono poche. Quando passa la fase acuta, è difficilissimo dimettere i malati, proprio perché, a parte l’ospedale, non si rintracciano quasi mai strutture che si prendano carico della successiva fase terapeutica fino alla guarigione”.
Appunto, la teoria dell’imbuto collassato, o – come dice un altro medico, in via di metafora – della vasca da bagno tappata: prima o poi l’acqua trabocca. Con risultati che confinano nel disordine pubblico. Il Civico è una piazza caldissima. Spiega Andrea Migliarba, responsabile della sicurezza, con la divisa targata Ksm: “Spessissimo la situazione è critica. I parenti fanno pressione, alle volte con metodi aggressivi. E ci vuole equilibrio per fronteggiare la calca”. C’è un posto di polizia, “ma – chiarisce il manager Migliore – serve soprattutto per le denunce. Io – continua – ho convogliato tutte le risorse disponibili al pronto soccorso; mi rendo conto che è la vera trincea della sanità. Non mandiamo indietro nessuno. Molti pazienti sono anziani e presentano patologie complesse, noi rappresentiamo il terminale di ogni sofferenza. Contiamo centomila accessi all’anno, più di trecento al giorno. Ci sono lavori in corso, già da fine maggio potremo offrire un conforto ancora più efficace. Questa amministrazione è impegnata al massimo”. La pianta organica è regolare. Tra assunti a tempo indeterminato e contrattualizzati, operano trentacinque medici e cinquantasei infermieri.
Agostino Geraci, che del pronto soccorso è il primario, sottolinea: “Di norma abbiamo quattro o cinque barelle da gestire, aspettando che si liberi il posto in un reparto. Si verificano attese anche di trenta ore. I picchi di affollamento li registriamo di mattina, dalle nove all’una. E poi, ovviamente, d’estate”. E se avesse davanti a lei l’assessore alla Salute, cosa gli chiederebbe, primario, quale sarebbe il suo desiderio? “Gli suggerirei di organizzare un maggiore controllo sulla governance dei posti letto”. Nell’inferno di corpi ammassati, c’è pure chi pensa allo spirito. La dottoressa Paola Carini è una psicologa che si aggira tra i gironi roventi, per portare un fresco sollievo: “Ci prendiamo carico delle persone e dei loro familiari, il sostegno è importante”.
Romano Tetamo ha una vita intera di ricordi, spesa tra le mura bianche: “Sono qui dal Settantasette e può immaginare quante ne abbia viste. L’aspetto più pesante è trattare la sofferenza dei bambini, certe vicende ti rimangono appiccicate addosso. Per esempio, in un giorno di maggio, accompagnai in sala operatoria una giovane donna che non sopravvisse. Non l’ho mai dimenticata”. Perché, dottore? “Si chiamava Francesca Morvillo”.
(2-continua)
La puntata precedente: l’ospedale Ingrassia.
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05 Maggio 2016, 15:05