PALERMO – Ha lasciato il carcere dopo 25 anni, per fine pena, il boss mafioso Giovanni Brusca, fedelissimo del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina, prima di diventare un collaboratore di giustizia ammettendo, tra l’altro, il suo ruolo nella strage di Capaci e nell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo. Brusca, a rivelarlo per primo L’Espresso, all’età di 64 anni ha lasciato il penitenziario di Rebibbia, a Roma, con 45 giorni di anticipo rispetto alla scadenza della condanna. Sarà sottoposto a controlli, protezione e quattro anni di libertà vigilata, come deciso dalla Corte d’Appello di Milano. La notizia ha trovato conferma in ambienti investigativi.
L’omicidio del piccolo Giuseppe
Era l’11 gennaio 1996, venticinque anni fa. Il piccolo Giuseppe Di Matteo veniva strangolato dopo 779 giorni di prigionia. Il suo corpo sciolto nell’acido. Avrebbe compiuto quindici anni otto giorni dopo. Quando gli uomini di Cosa Nostra lo sequestrarono per fare tacere il padre, il collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, doveva ancora compiere tredici anni. “Ti portiamo da tuo padre”, dissero a Giuseppe, rapito in un maneggio il 23 novembre 1993.
Allibertativi du cagnuleddu” (liberatevi del cagnolino), ordinò Brusca. Suo fratello Enzo Salvatore lo teneva per le braccia, Giuseppe Monticciolo per le gambe, Vincenzo Chiodo lo strangolò. Fu uno dei tanti omicidi commessi e ordinati dal boss di San Giuseppe Jato che grazie al suo pentimento ha evitato l’ergastolo ed è stato condannato a trent’anni. Quanta gente ha ammazzato? Il numero esatto Brusca non lo ricorda. “Meno di duecento”, si limitò a dire con un’indifferenza che non può trovare giustificazione neppure nella bestialità.
Liberazione per fine pena
Dopo 25 anni di carcere è arrivata la liberazione per fine pena. Gli sono spettati gli sconti per la buona condotta, da sommare alle decine di permessi di cui ha goduto in questi anni. Lo prevede la legge e va accettato anche quando, ed è questo il caso, viene il voltastomaco. Ad un certo punto in Italia si è deciso che per combattere la guerra a Cosa Nostra bisognava cercare l’aiuto degli uomini di mafia e per convincerli serviva un premio. Fu un’idea di Giovanni Falcone. Ci sono pentiti che in carcere ci sono rimasti molto meno di Brusca.
Nei mesi scorsi la Cassazione respinse il ricorso del capomafia stragista – fu lui a premere il telecomando nella strage di Capaci – che chiedeva di trascorrere l’ultimo periodo di detenzione ai domiciliari. Non c’è stato in lui “un effettivo compiuto ravvedimento”. Dopo un quarto di secolo in carcere non c’era “la prova certa e definitiva del suo ravvedimento”, nonostante avesse detto di essere un uomo cambiato. È vero, spiegarono gli psicologi, che ha mostrato una volontà di cambiamento, che è stato in contatto con un’associazione antimafia e ha fatto volontariato, che “si sofferma sui propri misfatti senza riluttanza e rigetta letture giustificazioniste”, che definiva Cosa Nostra ‘lurida e schifosa’ e che ha dato un contributo determinante in numerosi processi”. Tutto ciò non bastava, però, perché serviva “un mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto tale da indurre un diverso modo di sentire e agire in armonia con i principi accolti dal consorzio civile”.
La storia del ‘papello’
La Direzione nazionale antimafia nel 2019 aveva espresso parere favorevole alla concessione degli arresti domiciliari come ultimo premio per il suo “contributo eccezionale alle indagini”. La verità è che lo Stato con Brusca è stato magnanimo, alzando al massimo l’asticella della premialità, nonostante le contraddizioni che hanno da sempre accompagnato i suoi ricordi. Ondivago fu nel raccontare la storia del papello, la lista delle richieste che i corleonesi avrebbero avanzato allo Stato per fermare le stragi. All’inizio Brusca disse che Riina gliene parlò dopo la strage di via D’Amelio. Poi cambiò idea. Ne era venuto a conoscenza a cavallo dei due eccidi, appena dopo quello di Capaci. “Tornato in cella con questo dubbio da lì ho subito ricordato come sono andati i fatti”, disse lo smemorato Brusca. Silente per un lungo periodo Brusca lo è stato anche sulle figura di Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri. Aveva paura, così si giustificò.
Il caso Mannino
A dire il vero tacque a lungo pure su Calogero Mannino, definitivamente assolto dall’accusa di avere dato avvio alla trattativa fra la mafia e lo Stato. Ad un certo punto si ricordò che Totò Riina voleva ammazzare Mannino “perché una volta non si mise a disposizione per l’aggiustamento del processo per l’omicidio del capitano Basile”. Il processo non fu aggiustato. Ricordi improvvisi, seppure importantissimi, tornati alla memoria nonostante nel processo per mafia in cui Mannino fu imputato, e ancora una volta assolto, Brusca era stato interrogato. A domanda specifica se fosse a conoscenza di interventi, iniziative, favori fatti dall’onorevole Mannino a Cosa Nostra Brusca rispose che non gli risultava nulla. Giustificò l’improvvisa luce che illuminò i suoi ricordi dicendo che era “un difetto, molte volte cose che io non ho vissuto in prima persona le do per non importanti. Poi, quando arrivano alla mente, li racconto senza nessuna riserva”.
Le amnesie del pentito
Non giudicò importante raccontare che un ministro della Repubblica fosse stato incaricato dalla mafia di aggiustare un processo e che per questo Riina lo volesse ammazzare. Questa e altre clamorose dimenticanze sono state perdonate. Troppo importante Brusca nella lotta alla mafia per metterlo alla porta per i suoi ricordi fuori tempo massimo. Altre volte sono state le regole processuali a salvarlo. Come quando fu dichiarata prescritta l’ipotesi che avesse intestato fittiziamente dei beni a dei prestanome. Ora torna libero. Ha finito di scontare la condanna.