PALERMO – Coperture e protezioni della ‘ndrangheta attorno al boss latitante Matteo Messina Denaro: ne parla in un’intervista il pm della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Dichiarazioni caute, le sue: “No, non lo escludo. Per quello che è la storia delle mafie penso che nessuno di noi abbia la possibilità di escludere alcunché, proprio perché sono talmente ramificate e strutturate da essere in grado di gestire qualsiasi situazione”, afferma Lombardo, riferendosi alla possibilità che il padrino di Castelvetrano, ricercato dal ’93, possa avere trascorso parte della latitanza oltre lo Stretto e sia nascosto dalla ‘ndrangheta.
Una teoria che poggia su legami criminali antichi risalenti agli anni dei business miliardari del traffico di droga, proseguiti nel tempo, ma anche su contatti più recenti tra le due organizzazioni. Di pista ormai datata parlano gli investigatori palermitani, che sono impegnati nelle ricerche del padrino trapanese. Le indagini sul boss, insomma, sarebbero passate anche per la Calabria. “La storia criminale della ‘ndrangheta in particolare, l’ha spesso e volentieri trasformata in un’agenzia di servizi. Detto questo non ci sono elementi investigativi in questa direzione al momento ma, ripeto non è una strada da escludere”, conferma Lombardo.
A raccontare la storia dei rapporti d’affari tra ‘ndrine e clan siciliani, affari basati soprattutto sul traffico di droga e di armi, sono decine di inchieste. Tra le più significative quella che, nel 2003, portò a decine di fermi e arresti. In cella nomi storici come gli Agate di Mazara del Vallo e i Piromalli di Locri. Quasi 500 utenze sotto controllo per due anni e mezzo, sette paesi interessati – Italia e Colombia, ma anche Svizzera, Grecia, Spagna, Olanda e la lontana Namibia – 900 chili di ‘polvere bianca’ sequestrata. La joint venture stretta tra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta venne scoperta intercettando un boss calabrese, Paolo Sergi, mentre parlava al telefono con dei colombiani. Ore di intercettazioni, ma anche pedinamenti e appostamenti svelarono che la Locride era un vero e proprio crocevia e terminale della droga. Famiglie ben strutturate ed esperte con capitali da investire. E una capacità di movimento, sia in Italia sia all’estero, che consentiva di tenere propri uomini in Colombia.
In Sicilia intanto si scoprì che il capomafia di Salemi salvatore Miceli aveva in mano un grosso traffico di droga. Risalendo la catena, gli investigatori arrivarono al contatto di Miceli a Roma, una banda di grossi spacciatori e, da questi, si imbatterono in un’utenza internazionale. Che pero’ era già tenuta sotto controllo dagli inquirenti di Reggio Calabria. L’inchiesta diventò una sola e svelò il ruolo di Cosa nostra trapanese, specializzata nel trasporto di stupefacenti e che ai calabresi toccavano i ‘contatti’ con i colombiani. Il trasporto doveva seguire principalmente due direttrici: Colombia-Namibia (ma anche Sud Africa e Angola)-Trapani, oppure Colombia-Grecia-Italia-Spagna. E fu proprio nel porto greco del Pireo che gli inquirenti sequestrarono un container con 220 kg di coca. La prova decisiva del traffico.
(ANSA)