PALERMO – Educare all’autonomismo già da piccoli. Riscrivere la visione della storia della Sicilia. Raccontare un’Isola non più immobile, arretrata e sottosviluppata ma “‘aperta’ e ‘mondiale’ che interagisce con i processi storici della dimensione mondo dell’economia e della politica”. È questo il compito che il governo regionale ha dato alle scuole e ai docenti siciliani in vista dell’approvazione dell’offerta formativa per il prossimo anno scolastico.
Per il governo l’identità siciliana finora è stata raccontata male e per questo occorre evitare “di restare ancorati a schemi meramente folcloristici”, di “costruire steccati identitari”, di “rispolverare anacronistici miti indipendentisti” e di “mettere in discussione la proiezione nazionale e sovranazionale”. Bisogna piuttosto far riscoprire le radici, scegliere contenuti accattivanti e rileggere la centralità mediterranea dell’Isola. Il tutto, senza perdere d’occhio all’economia. Le linee guida infatti prevedono che le scuole avviino delle attività per la “scoperta del brand Sicilia nel mondo: uomini, donne, giovani, imprese che oggi rappresentano la Sicilia oltre i confini regionali”.
Ma per la giunta, lo studio dello Statuto, della storia siciliana antica e recente deve realizzare principalmente un “laboratorio di cittadinanza attiva”. E di risvolti politici, nelle linee guida di applicazione della legge per la promozione del siciliano nelle scuole, se ne incontrano spesso. “Nell’ultimo ventennio del secolo scorso – si legge in un allegato alla delibera – si coglie sempre più robustamente in Italia (ma non soltanto) una spinta verso forme più o meno evidenti di localismo. Tali spinte, alimentate spesso ad arte attraverso ritualità emozionale, hanno talvolta determinato la formazione di movimenti dichiaratamente “etnici”, che – conclude il documento -hanno in alcuni casi costituito la premessa per la fondazione di veri e propri partiti organizzati”. Insomma, se non è nata una “Lega Sicilia”, se i siciliani non hanno un partito forte che ne difenda gli interessi, se l’autonomismo – nella Regione che ha inventato l’autonomia – non esiste è anche perché nelle scuole non è stata comunicata la specialità dell’essere siciliani.
Adesso però si deve cambiare e nelle scuole isolane si deve tornare a scoprire la storia siciliana in quanto inserita e connessa con la storia del mondo. Per questo la relazione propone qualche digressione rispetto ai programmi scolastici a patto che però questi elementi di cultura siciliana non siano dei rattoppi ma siano pienamente integrati nel programma. Si può parlare ad esempio di Carlo V raccontando la politica linguistica e religiosa dell’imperatore nell’Isola, si possono studiare i “Fasci siciliani” attraverso le poesie sociali di Mario Rapisardi o riscoprire la storia dell’immediato secondo dopo guerra grazie alla testimonianza di Danilo Dolci in “Banditi a Partinico”. Le linee guida si sforzano insomma di fare vedere ai docenti come lo studio della storia regionale possa essere un’occasione di analisi critica della storia tanto che alla fine dell’elenco di esempi, in cui non mancano richiami a Vittorini, Verga, De Roberto e Sciascia, lo stesso documento ammette che “la trattazione di alcuni temi dovrà essere calibrata tenendo conto della maturità e dell’età degli scolari”.
Poi la giunta indica come va studiato il dialetto siciliano. La lingua regionale va vista come “variazione” nel tempo, nello spazio e nella società degli usi linguistici. Gli insegnanti devono “contribuire a rimuovere ogni pregiudizio sulla presunta inferiorità del dialetto” per questo bisogna capirne le influenze delle altre lingue perché questo aiuta il dialogo multiculturale. Il documento fa numerosi esempi fra questi certamente particolare è quello ai normannismi presenti sia nell’inglese che nel dialetto isolano e che sarebbero provati dal fatto che piercing e pirciari (bucare, per l’appunto) avrebbero la stessa origine.
Per il governo infatti, il siciliano può essere studiato perché ormai la lingua madre anche dei siciliani è chiaramente l’italiano e non si rischia che gli alunni non conoscano la lingua nazionale preferendo quella regionale. Insomma, oggi il siciliano non è la regola culturale, i giovani sono sempre più immersi nella società liquida e esposti alla globalizzazione: per questo lo studio del dialetto deve essere l’occasione per indagare la cultura popolare in tutte le sue espressioni: dai mestieri ai giochi passando per i riti e le feste. Ma il documento non ignora le differenze fra i territori e così l’insegnamento della lingua regionale dipenderà dal retroterra socioculturale e linguistico degli alunni.