PALERMO – La situazione all’interno delle carceri rischia di esplodere. Ed è necessario intervenire prima che questo accada. Non nasconde la sua preoccupazione Rita Bernardini, presidente del Partito Radicale, in Sicilia per partecipare a una giornata di studio che si terrà domani all’Università Kore di Enna dal titolo “Diritto è Giustizia”, che parla di “bomba ad orologeria”. La rivolta al carcere di Sanremo di alcuni giorni fa potrebbe essere solo la punta dell’iceberg.
Rita Bernardini, che da sette giorni è in sciopero della fame, chiede un incontro al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Partiamo da un dato di fatto – afferma Rita Bernardini – la popolazione carceraria è notevolmente aumentata, siamo alla soglia dei 60 mila detenuti. Le condizioni di vita dei detenuti sono fuori da ogni parametro di legalità”. La Presidente dei Radicali non punta il dito contro questo Governo, ma traccia una fotografia nitida di quanto sta accadendo all’interno degli Istituti penitenziari. “Il rischio è che si ritorni a quando le rivolte erano all’ordine del giorno”, spiega Rita Bernardini. “In questi anni, ricordando specialmente l’impegno di Marco Pannella, noi abbiamo coinvolto decine e decine di migliaia di detenuti che invece di fare le rivolte hanno fatto lo sciopero sposando il metodo non violento. Però la situazione rischia di incattivirsi”.
L’esponente dei Radicali snocciola dati allarmanti: “Dall’inizio dell’anno si sono verificati 50 casi di suicidio”. E avverte: “Stiamo arrivando per quanto riguarda la detenzione inumana e degradante ai livelli della sentenza Torreggiani del 2013, quella che condannò l’Italia per violazione dell’articolo 3 della convenzione dei Diritti Umani”. In attesa di un incontro con il ministro Rita Bernardini sente proposte che non paiono poter risolvere la situazione di emergenza. “Le parole che ho sentito – dice – sono più carcere più carceri. Più carcere significa meno misure alternative alla detenzione. E – ricorda l’esponente dei Radicali – tutti gli studi fatti sul tema hanno dimostrato che sono le pene alternative a quella detentiva quelle più efficaci per combattere la recidiva. Dal carcere – aggiunge – si esce peggiori di come si è entrati”.
Sulla realizzazione di nuove carceri Rita Bernardini invece afferma: “Noi abbiamo istituti penitenziari che hanno addirittura meno detenuti di quelli che dovrebbero contenere, mentre metà sono sovraffollati. Costruire nuove carceri che cosa vuol dire? – si interroga – Intanto vuol dire che ci vogliono i soldi e di questo non si è parlato e poi ci vogliono almeno dai 10 ai 15 anni per costruirli. E nel frattempo che facciamo? – si chiede Rita Bernardini – Tolleriamo che uno Stato violi la sua stessa legalità?”.
Nel programma della giornata di studi che si svolgerà domani nell’aula Napoleone Colajanni dell’ateneo ennese si terrà una tavola rotonda dal tema “Fine pena mai! Istituzionalizzazione nei luoghi di reclusione totale”. Tra i relatori il segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino, Sergio D’Elia che intanto vuole smentire un luogo comune: “Non è vero che in Italia non esiste il fine pena mai. Su 1600 ergastolani – spiega – 1200 scontano quello che tecnicamente si chiama ergastolo ostativo”. In parole povere carcere fino alla morte. “L’ergastolo ostativo – chiarisce D’Elia – in Italia può essere solo superato solo se il condannato all’ergastolo diventa collaboratore di giustizia. Quindi quel mai, quella parola direi ultimativa, può essere cancellata – aggiunge – soltanto nei casi in cui un condannato magari dopo 30 anni di carcere decide di collaborare con la giustizia”.
Per D’Elia questa regola rappresenta “una violazione palese del principio costituzionale sulla possibilità rieducativa della pena”. Su questo punto il segretario dell’Associazione Nessuno tocchi Caino evidenzia il ruolo dello Stato, di uno Stato che ama definirsi civile. “Il pericolo e il rischio di pene come la pena di morte o del fine pena mai, come l’ergastolo ostativo, e che lo Stato comportandosi in tal modo si rispecchia nel comportamento violento di colui che ha commesso il reato”. “Non ci si può abbassare al livello di un assassino”, chiosa D’Elia.