Da Cuffaro ai boss della provincia | Dina, “un politico senza scrupoli”

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17 Ottobre 2017, 15:21

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PALERMO – Un lungo excursus di tutte le grane giudiziarie di Nino Dina viene riportato nel provvedimento che ha fatto scattare la sorveglianza speciale per un anno e mezzo. Gli episodi vanno dal 2003 al 2015. Sono gli stessi giudici, però, a sottolineare che dopo il 2003 non emergono “concreti favori al sodalizio mafioso”. Da questo partono gli avvocati Giovanni Di Benedetto e Marcello Montalbano per sostenere che “non sussistano i presupposti per l’applicazione di alcuna misura di prevenzione”.

La vicenda più recente è del 2015, quando l’ex deputato era finito agli arresti domiciliari per alcuni giorni. I fatti, però, risalivano a tre anni prima. Alla vigilia delle elezioni regionali del 2012 il politico parlava al telefono con Giuseppe Bevilacqua, pure lui candidato ma alle comunali e non eletto per una manciata di voti. Secondo l’accusa nel processo ancora in corso, Bevilacqua sarebbe stato in grado di pilotare il consenso elettorale grazie all’intervento dei mafiosi di Tommaso Natale. Al telefono sosteneva di avere ricevuto alcune promesse da Dina: “Siamo andati… io e Nino Dina allo Scudiero. Siamo andati a mangiare là, poi siamo usciti, abbiamo passeggiato come ai tempi di Drago, da una parte all’altra, in via Libertà… dice: ‘Ma tu c’hai a qualcuno della famiglia da poter impostare? Io…’, dice, ‘ti posso dare un incarico eee…’, dice, ‘di 15 mila euro’, dice, ‘anche se non viene’”.

L’episodio più vecchio è del 2003. Il nome di Dina faceva capolino nell’inchiesta sulle cosiddette “Talpe in Procura”, costata la condanna per mafia all’ex governatore Totò Cuffaro. Dina sarebbe stato incaricato da Cuffaro per “trattare” con il manager della Sanità Michele Aiello, condannato per mafia, gli importi da inserire nel tariffario regionale per i rimborsi alle cliniche. Una vicenda che per Dina non ebbe alcun seguito giudiziario.

Nel 2009 emersero i rapporti fra Dina e Salvatore Di Miceli, considerato organico alla famiglia mafiosa di Monreale e su cui pende una proposta di misura di prevenzione personale e patrimoniale. Nello stesso anno l’onorevole veniva citato anche nel fermo che aveva colpito i clan mafiosi dell’Acquasanta. Nella sua segreteria politica, in largo Calatafimi, a Palermo, si era svolta una riunione con Antonino Caruso e Antonino Genova che “aveva per oggetto un accordo trasversale attraverso il quale i due uomini, in rappresentanza del contesto mafioso, promettevano appoggio elettorale in cambio di assunzioni”. Il collaboratore di giustizia Michele Visita disse di avere saputo dell’accordo. Nel 2010 mostrarono la foto di Dina a un altro pentito, Salvatore Giordano, che, pur non ricordandone il nome, disse che “questo è un altro politico… anche in mano loro l’avevano”, riferendosi ai mafiosi.

Il 3 dicembre 2012 Antonino Di Marco, Nicola Parrino e Pasqualino D’Ugo, allora incensurati e successivamente arrestati in un blitz dei carabinieri contro le cosche di Corleone e Palazzo Adriano, furono intercettati mentre uscivano dalla segreteria di Dina. Per questi fatti il politico non è stato indagato. Una scelta dettata dal fatto, spiegarono gli investigatori, che all’epoca dei fatti non era entrato in vigore il nuovo articolo sullo scambio elettorale politico-mafioso che punisce non più chi “ottiene la promessa” ma chi “accetta la promessa” di voti ed estende lo scambio ad altra “utilità” invece che alla sola “erogazione di denaro”. Per la verità il consenso elettorale ottenuto da Dina in quella fetta di provincia non è andato oltre una manciata di voti.

Il 19 maggio di quell’anno, nel corso di una telefonata tra Di Marco e Parrino venne fuori che Dina era atteso a Palazzo Adriano. Masaracchia voleva che Di Marco fosse esplicito con l’onorevole: “Tu con Dina devi cercare di parlarci chiaro. Gli devi dire io Nino l’aiuto te lo da, però ricordati che poi io ti vengo a cercare”. Il 29 ottobre 2012, il giorno successivo alle elezioni regionali, Parrino contattava Caruso per informarsi sui risultati: “Non è che lui ha… venti voti, cinquanta voti… eh… eh… capiresti, capiresti che se fosse per tutti e due… (di fatto sminuirebbe l’apporto dato all’elezione di Dina, consistito in soli 50 voti) certo una cosa… noi altri… una piccola soddisfazione c’è… nel senso che… intanto Nino è il primo là, tra… tra i candidati dell’Udc”. Quindi Parrino avvertiva Di Marco: “Che ti do una notizia… Ma cos’è… eh… l’amico nostro eh… diciamo che è quasi il primo eletto…”.

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Dina è anche sotto processo per la presunta violazione sui finanziamenti elettorali. Avrebbe ricevuto 4 mila e 600 euro dal manager della pubblicità Faustino Giacchetto. Un’ipotesi per la quale si profila la prescrizione.

Sono tutti episodi che spingono il collegio delle Misure di prevenzione a definire Dina “senza ombra di dubbio una personalità politica priva di scrupolo nell’avvicinarsi a contesti che certamente destano preoccupazione sotto il profilo della generica tutela della legalità”. Ed ancora “si è visto come la traiettoria politica che lo portato a ricoprire importanti incarichi all’interno delle istituzioni regionali, si è certamente intersecata in almeno due occasioni con esponenti del sodalizio mafioso”.

Sono gli stessi giudici a sostenere che “sebbene debba riconoscersi che, dopo l’episodio del 2003 (quello che riguardava Aiello e Cuffaro ndr), non sia possibile evidenziare concreti favori resi al sodalizio mafioso, a poco vale accertare che l’intenzione di Dina non sia mai stata quella di favorire il sodalizio mafioso, ma solo quella di mantenere il proprio consenso elettorale. Soprattutto va rimarcato che i suoi comportamenti hanno costituito in modo obiettivo una condizione favorevole per l’agire mafioso”.

Lo stesso collegio ammette di essere “ben consapevole della rigidità di questo giudizio (e della diversità dell’approdo della giurisprudenza sul concorso esterno), ma lo scopo delle disposizioni in materia di prevenzione antimafia (di recente rafforzate dalle previsioni di incandidabilità nelle elezioni amministrative per i soggetti colpiti da una misura di prevenzione definitiva) è proprio quello di assicurare una netta e totale cesura fra i soggetti chiamati alla cura degli interessi che fanno capo agli enti territoriali e l’ambiente mafioso. Tanto basta anche per ipotizzare in modo ragionevole che egli ossa in futuro manifestare la sua contiguità all’ambiente mafioso, nonostante la dichiarazione di non volersi più candidare”.

 

 

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17 Ottobre 2017, 15:21

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