15 Maggio 2022, 06:04
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Le parole del giudice Alfredo Morvillo, pronunciate per sottolineare e criticare il rapporto tra condannati per mafia e politica. Quelle successive di Maria Falcone, altrettanto nitide. Il pensiero che si volge, per automatismo, a Totò Cuffaro, a Marcello Dell’Utri e al centrodestra, impegnato nella sfida di Palazzo delle Aquile. Il grido di dolore di Tina Montinaro, vedova di Antonio, caposcorta di Falcone. E quel sangue e quelle macerie che nessuno può dimenticare. E poi la campagna elettorale che, per naturale polemica, assorbe e riflette ragionamenti, frasi, idee, declinandole nel suo modo spiccio, in una dialettica conflittuale. Tanti spunti contundenti, ma anche praterie di senso da indagare. Sull’argomento c’è, per esempio, da ascoltare il professore Giovanni Fiandaca, insigne giurista, studioso di diritto penale e della mafia, garante dei detenuti in Sicilia. Con lui è quasi superfluo portarsi appresso un canestro di domande, perché risponde da sé ai quesiti puntuti che avresti voluto porgli. Ecco come la pensa, capitolo per capitolo, in una sorta di saggio breve, con robusti agganci alla cronaca, che pubblichiamo.
“Una premessa è scontata – è l’incipit del professore -. La questione è complessa e delicata e non può essere banalizzata, né è opportuno dar luogo a equivoci. Cerco, perciò, di essere più chiaro possibile. Come giurista sensibile ai principi costituzionali, raccomanderei di distinguere l’aspetto giuridico-costituzionale che, non solo ai miei occhi, in una democrazia come la nostra, è della massima importanza, dalla valutazione politica. Quanto alla dimensione costituzionale, anche i cittadini comuni dovrebbero una volta per tutte maturare la consapevolezza che una condanna penale, anche per un reato di mafia, non comporta affatto un giudizio di perpetua indegnità morale o di perpetua inaffidabilità sociale o politica della persona condannata”.
Un esordio che apre il ventaglio delle considerazioni che seguono l’enunciato. “Vi è di più – continua il professore -. La nostra Costituzione muove da una una concezione antropologica non pessimistica, cioè dalla concezione di fondo che nessuno è delinquente, o persona immorale, o persona priva di dignità per sempre, anche se la persona in questione si è resa responsabile del più atroce dei delitti possibili. Anzi, la dignità personale non la perde mai costituzionalmente neppure il criminale più mostruoso e gli stessi diritti fondamentali che debbono essere riconosciuti persino ai carcerati hanno il loro fondamento in un concetto di dignità umana inalienabile, che compete sin dalla nascita a ogni essere umano in quanto tale. E la riprova è costituita dal fatto che l’articolo ventisette della Costituzione attribuisce alla pena, come scopo principale, una finalità rieducativa, o risocializzatrice, o riabilitativa che dir si voglia, per cui l’obiettivo ultimo a cui tende la Costituzione è il cosiddetto reinserimento nella società libera della persona condannata, nel presupposto che l’avere scontato la punizione possa avere l’effetto di educare la persona punita al rispetto dei valori fondamentali della convivenza”.
Un canovaccio generale che si innesta nelle storie dei nostri giorni che vedono dei condannati per mafia, non più ricandidabili, presenti nella contesa politica e inseriti nella dinamica di scelte e trattative. “Una persona che ha già scontato la pena inflittale per usare espressioni tradizionali ha saldato il debito con la società – dice il professore Fiandaca – ha riparato il male commesso, è pertanto ritornato a essere un cittadino in pieno possesso dei suoi diritti che nessuno si può permettere di censurare pubblicamente a causa dei reati commessi in passato. Persone come Salvatore Cuffaro o lo stesso Marcello Dell’Utri hanno tutta la libertà, se lo ritengono, di continuare a impegnarsi politicamente. E sarebbe ingiusto e incostituzionale pretendere di criticarli per il semplice fatto che da ex condannati, per reati di contiguità mafiosa, intendono continuare a esercitare un ruolo politico attivo, eventualmente condizionando le dinamiche politico-elettorali. Altra cosa è il diritto a ricandidarsi che, in questo caso, presuppone un giudizio di riabilitazione ancora a di là da venire, almeno secondo il diritto tuttora vigente, sempre che la Corte europea non dica niente di nuovo sul punto”.
Il ragionamento di Giovanni Fiandaca approda all’attualità politica: “Insomma, se, ad esempio, sono un elettore di centrosinistra, non sarò, in linea di corretto principio, legittimato a basare, oggi, la mia critica al centrodestra soprattutto sul fatto che continuino ad avervi un ruolo attivo personaggi alla Cuffaro o alla Dell’Utri. Piuttosto, riconosciuta la piena libertà e legittimità dell’uno o dell’altro di volere continuare a impegnarsi in politica, la critica dovrebbe rivolgersi al merito politico, al senso e al contenuto dei consigli, dei suggerimenti o delle proposte concrete che personaggi ex condannati potrebbero portare nel dibattito politico. E se il professore Lagalla accetta quel sostegno, non vuol dire che stia accettando di difendere interessi oscuri. Questo è un modo giustizialista e populista di intendere”.
Ma la lacerazione, avvertita da tanti, non è esclusivamente di prassi politica o di riflessione sull’opportunità politica. Ci sono, infatti, le parole delle vittime e le idee di chi, senza alcuna intenzione di strumentalizzare alcunché, pone domande legittime e si dà risposte che riguardano il nostro essere siciliani, nella pienezza del sangue che è stato versato. “Io comprendo e rispetto Alfredo Morvillo – dice il professore Fiandaca . Se colgo bene il significato profondo delle sue parole, sono senz’altro d’accordo. Le intendo, mi pare di poter dire, nel senso che il dibattito politico non ha fatto quel salto di qualità e altresì non si è realizzato quel rinnovamento personale del ceto politico che ci si sarebbe dovuti attendere dopo le stragi e dopo le tragedie che abbiamo sperimentato”.
“Comprendo anche la ulteriore presa di posizione di Maria Falcone. Mi chiedo, però non polemicamente, se ancora oggi sia davvero necessario porre al primissimo posto, e soprattutto esplicitarlo a gran voce, l’impegno contro la mafia – è la conclusione del giurista -. All’uscente sindaco Orlando viene da più parti rimproverato di avere ecceduto in simbolismo antimafioso e di avere trascurato di affrontare i problemi concreti della città. Sarei tra coloro i quali ritengono che sia maturato il tempo, per i politici, di passare una buona volta dall’antimafia delle parole, dei gesti, e delle esibizioni pubbliche a una antimafia fatta di cose concrete, di scelte amministrative e forme di effettiva vigilanza che tolgano spazio ai condizionamenti mafiosi, nonché di interventi in chiave di prevenzione e sostegno sociale, volti a porre i cittadini più bisognosi e vulnerabili in condizioni di resistere alla ricorrente tentazione di seguire scorciatoie criminali. Questo concreto impegno antimafia, da realizzare e sviluppare, all’interno di un credibile e complessivo programma di futura gestione politico-amministratriva della città, dovrebbe essere assunto da entrambi i principali i candidati sindaci. Non solo a parole, ripeto, ma spiegando appunto cosa specificamente intendono fare per mantenervi fede. E poi, in definitiva, non credo che Cuffaro e Dell’Utri abbiano oggi in mano le sorti del centrodestra e conosco e stimo Roberto Lagalla. In ogni caso mi sento di escludere che egli si faccia consapevolmente rappresentante di interessi poco nobili”.
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15 Maggio 2022, 06:04