Ogni mattina, un palermitano chic ascolta la sonata più sconosciuta di Baldassare Galuppi. Poi consuma latte di soia a colazione. Poi inforca la bicicletta e guarda, con un’occhiata miserevole, i panormosauri che, giustamente, soffrono le pene di un meritato inferno in macchina. Poi detta su facebook le sue massime immortali sulla convivenza civile e sulla tolleranza. Poi, la sera, rincasa e, un attimo prima di spegnere le luci, si rimira soddisfatto nel suo stesso riflesso, convinto di avere salvato il mondo. E’ la banalità della bellezza, bellezza. Che non cambia le cose. Che non pratica le strade sconnesse e sudate delle rivoluzioni. Che ha disperatamente bisogno di un pezzetto di specchio così da potersi guardare (cit).
Questa mattina, molti di costoro – e molti altri, invero – si sono precipitati al Teatro Massimo di Palermo per ascoltare Sua Santità Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama, trovando pane per le loro suggestioni. Una vibrazione invisibile di amore universale. Una celebrazione dell’impalpabile. La bellezza della banalità, servita calda e buon mercato, per tutte le anime desiderose di acquistarla. Per entrare, infatti, si pagava.
La visita di un Dalai Lama a Palermo è un vanto cittadino che va sottolineato, si intende. Ed è logico che, intorno alla circostanza, si sollevi un poderoso drappeggiare di propaganda, con annesso armamentario marketing.
Ma – con il dovuto rispetto – qual è stato il messaggio epocale, la polpa, nel guscio dell’evento? Citando a saltare: “La vera gioia è interiore”, “Contano il buon cuore e l’intelligenza”, “Il senso di compassione viene dalla madre”, “E’ impensabile che un essere umano uccida un altro essere umano”, “I problemi che affrontiamo, li abbiamo creati noi”.
La banalità della bellezza e della bontà che mai indicano il modo, ma sempre propongono le perline colorate di un luminoso e irraggiungibile orizzonte. Non un discorso della montagna, scandaloso e ribelle, piuttosto l’esibizione pop di un celebre viaggiatore di ottantadue anni che ha impegnato una larga parte della sua esistenza a rappresentare qualcosa di cui molti sanno poco o nulla.
Sua Santità – sia scritto in omaggio alla sua spiritosa levità – sembrava il più consapevole dell’accaduto: una lezioncina morale, un bignamino filosofico, niente di sostanzialmente rilevante. Infatti, rideva di gusto, elargiva occhiate di buonumore, rasserenato e gioviale, motteggiando affettuosamente il sindaco Orlando che gli reggeva la mano, lo assisteva e lo coccolava con l’espressione di Mosè nel roveto ardente.
Perché – ed è forse questo il punto centrale del discorso – la banalità della bellezza è purissimo ossigeno per la politica in crisi asmatica che addita il suo stesso orizzonte friabile e luminoso, ammantandosi di misticismo, dimenticando il modo e i mezzi. Una contraddizione. Una fuga.
C’era in platea il sindaco di Messina, Renato Accorinti. E non si può dire che i messinesi siano contenti di lui. Eppure, era lì, nella sua veste di amministratore illuminato dalla grazia, a dispetto dei disastri e delle incompetenze assortite di cui viene accusato. Appunto.
E c’era il già citato Leoluca Orlando – altra pasta rispetto ad Accorinti, d’accordo – il vero mattatore dell’incontro, con la sua capacità prodigiosa di trovarsi nello snodo di qualunque scena, relegando chiunque al rango di illustre comparsa. Pure lui era lì – in un regno ultraterreno, senza cassonetti maleodoranti, né marciapiedi sconnessi, né traffico, né disservizi, né cantieri che asfissiano, né negozi che chiudono, né giovani che scappano – a rivestirsi dei medesimi paramenti.
Il bene. La bontà. La bellezza. Che sono veri e santi, quando contengono il ‘come’, quando la predicazione che, necessariamente, li esalta, annota anche la consapevolezza delle sofferenza e della fatica che la bellezza, la bontà, il bene comportano. Altrimenti diventano oggettini falsi, alibi di affari privati e di pubblici fallimenti,
I palermitani del ‘Massimo’ sono stati comunque generosi. Hanno applaudito, gorgheggiato e inanellato esclamazioni di meraviglia perfino in certi banalissimi passaggi. E qualcuno in platea, chissà, avrà pure pensato che proprio lui, Sua Santità, sarebbe stato un ottimo candidato civico. Peccato.