Ma la mafia di oggi – che pure uccide, corrompe e taglieggia – è la stessa di venticinque anni fa quando le cosche capeggiate dai corleonesi di Totò Riina si credettero invincibili e lanciarono una forsennata sfida allo Stato? Se poni la domanda agli studiosi, quelli ti rispondono di no. Ti dicono e ti dimostrano che, nel tragico scontro con lo Stato, la mafia ha perso e lo Stato ha vinto. Certo, la malapianta è ancora lì, tra le tormentate e limacciose terre di Sicilia, ma non ha più la forza distruttiva e sanguinaria delle stragi; non si avventa più come una piovra maledetta contro i magistrati che non le danno tregua; non avverte più l’esigenza di ammazzare per strada, come cani, sbirri e traditori, pentiti e delatori. Certo, nei mandamenti della Palermo nera si ritrovano ancora capicosca e picciotti di mezza tacca, killer e colletti bianchi, estortori e spacciatori, trafficanti e speculatori, ma la mafia che venticinque anni fa ebbe la scellerata spregiudicatezza di assassinare Giovani Falcone e Paolo Borsellino forse non c’è più. E’ stata sconfitta. Lo dice apertamente il professore Salvatore Lupo, docente di Storia contemporanea, che sulla materia ha scritto un’infinità di libri, tutti autorevoli e tutti documentati. Lo ammettono, ma senza appariscenze, i procuratori che l’hanno combattuta senza timidezze e senza clamori. Lo confermano i rapporti provenienti dalle patrie galere dove marciscono, guardati a vista, i boss di quella sciagurata stagione: da Totò Riina a Leoluca Bagarella, da Pietro Aglieri a Pippo Calò. C’era pure Bernardo Provenzano ma è morto il 13 luglio di quest’anno, dopo un’agonia lunga e impietosa. Rimane libero, si fa per dire, solo Matteo Messina Denaro che secondo le testimonianze dei pentiti avrebbe preso il ruolo che fu del Capo dei capi, cioè di Totò Riina. Ma oggi è il latitante più ricercato del mondo: se è ancora vivo, prima o poi finirà in galera pure lui perché attorno gli hanno fatto terra bruciata e non gli è rimasto accanto né un parente né un attendente né un favoreggiatore.
Solo Dio sa che cosa c’è voluto per portare tutti questi malacarne dietro le sbarre. C’è stato l’impegno straordinario di non pochi magistrati; c’è stata la dedizione, al limite del sacrificio, di poliziotti e carabinieri; e c’è stata soprattutto una legislazione d’emergenza attraverso la quale lo Stato ha consentito agli investigatori di allentare le maglie del diritto pur di colpire al cuore il sistema mafioso: con le sue cosche, le sue collusioni, i suoi interessi, i suoi patrimoni.
Gli strumenti messi a disposizione dall’emergenza sono stati direttamente proporzionali alla potenza del nemico che bisognava sconfiggere. Si sono create corsie preferenziali nella magistratura, come le direzioni distrettuali antimafia, per meglio coordinare indagini e sospetti; si è affinata una polizia specializzata come la Direzione investigativa antimafia; si è decretato il carcere duro; si sono concessi benefici inimmaginabili a pentiti e collaboratori di giustizia; si è istituito un tribunale per le misure di prevenzione; si è attrezzata una potentissima macchina giudiziaria per il sequestro e la confisca dei beni comunque riconducibili ai boss o ai loro complici o ai loro eredi. Lo Stato insomma ha fatto il proprio dovere. E lo ha fatto bene: la mafia ha perso.
Possiamo dunque archiviare il problema? Per carità. La malapianta, anche se rinsecchita, ha ancora molte radici conficcate nella società e nel malaffare. E non a caso i più sinceri antimafiosi gridano ad ogni manifestazione e ad ogni dibattito che “non bisogna mai abbassare la guardia”. Al tempo stesso però comincia a farsi strada una domanda legittima e anche un tantino provocatoria: finirà mai la grande emergenza? Verrà il giorno in cui lo Stato, in tutte le sue articolazioni, potrà dire che la battaglia è stata in buona parte vinta e che bisognerà quindi ripristinare le regole del diritto? Se non tutte, almeno le principali. Anche perché quando le maglie del diritto si allargano, i confini del lecito e dell’illecito diventano pressoché evanescenti e inesorabilmente lasciano spazio a chiunque, coperto dalla sacra bandiera dell’antimafia, voglia costruire per sé un privilegio, una rapida carriera politica, un redditizio affare, una impunità.
Se ne sono visti tanti, di miracoli, in questi lunghi anni di emergenza. E forse non è proprio un caso che lo scandalo più irritante e irriverente sia maturato proprio lì, nel palazzo di Giustizia, dove la dottoressa Silvana Saguto, presidente della sezione “Misure di Prevenzione”, amministrava la più emergenziale delle leggi antimafia: quella che prevede il sequestro dei beni.
Una legge necessaria, indubbiamente: serve a prosciugare la ricchezza che i mafiosi accumulano con la violenza. Ma è anche una legge che, in nome dell’emergenza, ha invertito l’onere della prova: non spetta al pubblico ministero dimostrare l’origine mafiosa del bene sequestrato ma spetta alla persona “in odore di mafia”, cioè all’indagato, provare con documenti e testimonianze che quei beni sono stati accumulati negli anni legittimamente, senza nessuna contiguità con le cosche.
Facile capire, a questo punto, come l’eccessiva volatilità delle regole abbia consentito alla dottoressa Saguto di trasformare il “tribunale dei sequestri” in una cosca togata che, all’ombra della santissima lotta a Cosa nostra, ha preso in mano imprese e immobili sottratti ai boss e li ha depredati fino all’inverosimile.
Una cosca ben agguerrita quella che faceva capo alla dottoressa Saguto: negli anni, e nell’indifferenza quasi generale degli altri eccellentissimi magistrati che pure convivevano nello stesso palazzo di giustizia, la presidente della sezione “Misure di prevenzione” ha ottenuto consulenze e prebende per il marito, per i figli, per i cancellieri che le ronzavano attorno, per gli investigatori che le segnalavano i mafiosi da spennare. Il tutto con un meccanismo apparentemente semplice: i commercialisti e gli avvocati che lei trasformava, senza regola e senza controlli, in amministratori giudiziari avrebbero poi garantito al clan vantaggi e privilegi di ogni genere e qualità. Comunque, per questo scandalo, c’è almeno qualcuno che rischia di pagare: la procura di Caltanissetta, delegata a indagare su fatti e misfatti della magistratura palermitana, ha messo sotto accusa gli undici componenti della particolarissima confraternita ai quali contesta, più o meno, qualcosa come settanta reati: dalla truffa alla corruzione, dal peculato alla malversazione. Ma i guasti prodotti dall’emergenza non si limitano ai beni sequestrati, un paradiso che in tutta Italia sfiora la stratosferica cifra di oltre 30 miliardi di euro. La volatilità delle regole investe anche il codice di procedura penale con conseguenze sulle libertà personali che i padri costituenti difficilmente avrebbero potuto prevedere. Si pensi a quelle norme che, in presenza di reati comunque connessi alla mafia, dilatano a dismisura i tempi della prescrizione. Si tratta, sia chiaro, di norme nate con le migliori intenzioni: la vischiosità della mafia implica una specifica difficoltà nell’acquisizione delle prove, perché c’è l’omertà e perché ci sono mille imprevedibili complicità. Ma, salve fatte le buone intenzioni, è difficile negare che molti processi per mafia hanno finito per mortificare non solo l’articolo 111 della Costituzione, quello che prevede i tempi ragionevoli, ma anche e soprattutto la dignità di persone che in molti casi hanno dovuto affrontare non un’inchiesta ma un’interminabile gogna, non un processo ma un lungo calvario. Ricordate la storia dell’inquisito Calogero Mannino? Arrestato dal procuratore Gian Carlo Caselli nel febbraio del 1994 e detenuto per nove mesi nel carcere di Rebibbia, l’ex ministro democristiano sarà ricordato come l’uomo che ha vissuto la gogna più lunga: ventidue anni. E non è ancora finita. Perché il dottore Nino Di Matteo, il pubblico ministero più in vista tra quelli che ancora credono nella famigerata trattativa tra lo Stato e i boss della mafia stragista, ha pubblicamente anticipato che il suo ufficio impugnerà la sentenza, emessa con rito abbreviato, con la quale il Gup, Marina Petruzzella, ha assolto nel novembre dell’anno scorso Mannino da ogni manovra cospiratoria. Qualcuno ha ancora il coraggio di dire che siamo nella fisiologia processuale? Se gli andrà bene – nei ventidue anni di calvario ha già collezionato tre sentenze di assoluzione – l’ex ministro democristiano dovrebbe uscire definitivamente dai guai attorno al 2019, dopo il giudizio d’appello e il nihil obstat della Cassazione. Che Dio gliela mandi buona.
C’è da augurarsi che vada bene anche agli altri nove imputati della Trattativa, a quelli che, a differenza di Mannino, non hanno scelto il rito abbreviato ma il processo ordinario. Per loro si profilano tempi biblici e per avere un’idea dell’andamento lento con cui ci si muove nell’aula bunker dell’Ucciardone basta citare qualche cifra: le udienze si trascinano lente e solitarie da quasi tre anni e siamo ancora all’esame dei testimoni d’accusa. Per ascoltare quello che i procuratori ritengono essere il teste chiave, cioè quel Massimo Ciancimino che in altri processi correlati viene invece definito un pataccaro, la corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto, ha impiegato ben cinque mesi.
Il dato di fatto è che le tesi dell’accusa fanno acqua da tutte le parti e le conferme arrivano non da opinionisti che si trovano a passare da lì per caso ma dai giudici che, per un motivo o per un altro, si trovano ad affrontare vicende e tragedie di quell’epoca: alla teoria della Trattativa non ha creduto la Gip del caso Mannino, tanto che ha concluso il processo con una assoluzione; non hanno creduto i collegi di primo e secondo grado che hanno passato a setaccio la condotta del generale Mario Mori, l’ex comandante del Ros che Di Matteo e gli altri tre pm d’aula ritengono invece il promotore e il regista del patto scellerato con i boss; e non ci credono nemmeno i pubblici ministeri che a Caltanissetta stanno per concludere la requisitoria al quarto processo per l’assassinio di Paolo Borsellino, avvenuto 24 anni fa in Via D’Amelio.
Il problema vero è che la mastodontica impalcatura della Trattativa è stata costruita da magistrati convinti che l’emergenza desse loro la possibilità di processare la storia e non i singoli uomini, imputati di specifici reati. Di conseguenza è stato montato un processo buono per i giornali e i talk-show – e anche per la campagna elettorale del dottore Antonio Ingroia, capofila degli accusatori – ma assolutamente privo dei requisiti necessari per affrontare un dibattimento. Manca il movente: se tutti i boss sono finiti in galera a che è servita la Trattativa? Manca la configurazione del reato: non essendoci traccia nel codice penale del reato di trattativa, si sono inventati l’articolo 338 che prevede un improbabile attentato a un imprecisato corpo politico dello Stato. E manca pure la prova regina: il papello, cioè la carta che avrebbe dovuto sancire l’accordo tra Mori e i boss è la fotocopia di un foglio scritto in stampatello e mai ritrovato. Una fotocopia fornita agli inquirenti dal giovane Ciancimino, lo stesso che poco prima aveva contraffatto un documento del padre per calunniare l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. “Un manipolatore”, ha tagliato corto la Petruzzella, con grande disappunto dei professionisti dell’antimafia che nel processo sostenuto con tanto ardore da Di Matteo vedono ancora l’unica possibilità di “tenere alta la tensione”.
Ecco il punto: l’obiettivo, per le tante confraternite che si sono allegramente incistati nel vasto mondo dell’antimafia, non è la verità ma il mantenimento dell’emergenza. Di quella stessa emergenza che consente ai furbi e agli spregiudicati, che pure battono quelle contrade, di conquistare tanti privilegi. Anche quello di sbagliare, con tenacia e perseveranza, senza mai pagare pegno. Di fatto, una strisciante forma di impunità.