21 Maggio 2020, 19:55
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PALERMO – “Sono stato ancora una volta calunniato. Ora basta, denuncio in sede penale e civile chi vuole infamarmi”: lo dice l’ex dirigente generale della Polizia, Bruno contrada, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, sentenza giudicata illegittima dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla Cassazione, dopo la trasmissione ‘Atlantide’, ieri su La7, in cui il giornalista e saggista Saverio Lodato ha detto che nel 1989, dopo il fallito attentato all’Addaura a Giovanni Falcone, il magistrato gli avrebbe detto che il riferimento alle “menti raffinatissime” che erano dietro all’attentato riguardava Bruno Contrada. Dopo 31 anni il giornalista ha raccontato in tv che Falcone lo diffidò dallo scriverlo altrimenti avrebbe chiuso il rapporto con lui. “Diffama anche Falcone – dice Contrada – che avrebbe detto una cosa a un giornalista facendosi promettere che non l’avrebbe scritta. Perché lo dice 31 anni dopo? La procura generale ha fatto ricorso per Cassazione contro il risarcimento di 670mila euro deciso dalla corte di appello per la mia ingiusta detenzione. Vogliono massacrarmi fino alla morte”.
Quando venne scoperto l’esplosivo sugli scogli vicino alla villa al mare di Falcone col giudice italiano c’era anche il magistrato svizzero Carla del Ponte. Quest’ultima avrebbe ascoltato le parole dell’industriale bresciano Olivero Tognoli, accusato di riciclare soldi della mafia e arrestato in Svizzera nel 1988, che, interrogato, a Falcone avrebbe detto che a farlo fuggire dall’Italia era stato Contrada. Tognoli non mise mai a verbale quel nome e poi fece quello di un altro poliziotto. L’episodio è stato ricordato ieri su La7 da Alfredo Morvillo, il magistrato cognato di Falcone. “Il settimanale L’Espresso scrisse questa storia – dice Contrada – Querelai giornalista e direttore. Poi mi convinsi di ritirare la querela dopo che L’Espresso mi inviò una lettera di scuse ammettendo di aver sbagliato”.
Sul fallito attentato dell’Addaura “Giovanni Falcone parlò nel 1989 di ‘menti raffinatissime’ e indicò Domenico Sica”. Lo ha detto la giornalista francese Marcelle Padovani alla presenza anche di don Luigi Ciotti e Rosaria Costa, la vedova di Vito Schifani, uno dei tre agenti uccisi nel 1992 , oggi pomeriggio durante”Capaci, non dimenticare”, una conversazione in streaming organizzata dall’associazione “Strada degli Scrittori”, Rispondendo ad una domanda di Felice Cavallaro, la corrispondente de “Le Nouvel Observateur”,autrice del libro “Cose di Cosa nostra” scritto con Falcone ha raccontato: “Non avevamo i telefonini all’epoca, quindi passarono due o tre giorni dal fatto e ricevetti una chiamata da Giovanni Falcone che mi disse:’Tu sai benissimo che la prima persona che ti chiama è responsabile del guaio che ti è successo… Indovina chi mi ha chiamato per primo’. Io risposi facendo un nome: ‘Andreotti?’. E lui ‘No, Domenico Sica’, cioè l’Alto commissario antimafia di quella stagione carica di veleni. Si tratta di una cosa vera rispetto alla quale non ho alcun supporto, ma la dico per mostrare come la sua mente su questa vicenda andasse in tutte le direzioni perché non ha mai pensato che si trattasse di un attentato mafioso”.
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21 Maggio 2020, 19:55