Gli ospedali della disperazione | “Un energumeno voleva picchiarmi”

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21 Agosto 2019, 06:12

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PALERMO- Al pronto soccorso, in quel giorno d’estate, si respirava un’aria di umanità sofferente, un odore di umanità arrabbiata, un sentore di umanità solidale che non sapeva dove sbattersi prima. E c’erano anche gli arroganti, gli sgarbati, i prevaricatori. L’afa non offriva clemenza. Esacerbava gli animi. Prove tecniche di litigi. Due uomini sudatissimi si accapigliavano per l’unica presa libera: dovevano ricaricare il telefonino. La folla si accalcava. C’era una inquietante somiglianza con l’interno di un autobus all’ora di punta. Chi era seduto, sulle poche panche disponibili, nello spazio angusto, aveva un altro corpo praticamente addossato che gli mozzava il respiro. Nessuno ci faceva caso.

Un paziente riposava sulla sua poltroncina comoda. Ma, dopo essere andato in bagno, scoprì che qualcuno gliel’aveva serenamente sottratta. Stessa sorte per la sedia e per la sediolina, raccattate qua e là, alle successive sortite. Il commento conclusivo dell’interessato fu tranciante: “Min… come il Palermo mi è finita”.

Un uomo buono, un inserviente, si preoccupava di aiutare le persone con maggiore disagio. Regalava parole di conforto agli anziani. Soccorreva i non deambulanti. Si prodigava. Era un piccolo e ottimista San Francesco in trasferta. C’erano due dottoresse. Una combatteva con la disperazione di chi sa che ogni giorno ha il suo affanno. Un’altra un po’ sorrideva. Era stata prestata da un reparto diverso, come nel calciomercato, e quello era il suo ultimo turno in trincea.

Malvenuti nei pronto soccorso, nei reparti, nell’inferno della sanità palermitana e siciliana. Tutti su una zattera alla deriva, malati e terapeuti, in un contesto permeabile che incoraggia gli abusi e le scorrerie del branco. E’ notizia freschissima l’aggressione a Villa Sofia. Ma si tratta appena del frammento tremendo che galleggia di un caos che preoccupa, di una lotta quotidiana, di un clima di violenza.

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E c’è, tra i dottori, gli infermieri, gli operatori, in genere, la voglia necessaria di raccontare una pena con discrezione. Non tutti, bisogna riconoscerlo, sono immancabilmente dediti alla causa. Eppure, la maggioranza, nonostante stress e carichi pesantissimi, è composta da persone perbene, impegnate, che vivono il mestiere come una missione e che vanno a infrangersi contro la crudezza della realtà.

Racconta un esperto ‘lupo di corsia’: “Il problema del sovraffollamento è in gran parte legato agli accessi inappropriati. Stamattina, per esempio, una signora mi chiedeva se poteva fare gli esami a suo marito dato che tutti i laboratori sono chiusi…”. Un altro sciorina le stimmate di un elenco che conosce a memoria: “Famiglie di scalmanati, ingressi non appropriati, affollamento, lungaggini per gli esami, medici stanchi, personale che fa fatica… Siamo indifesi”. E ancora: “La tensione è al massimo, speriamo che, prima o poi, non succeda il peggio”. Un dottore di indole pacifica: “Un energumeno mi provocava, voleva mettermi le mani addosso. Io feci il gesto di levarmi gli occhiali e si placò. Ma poi arrivò la polizia… Uno mi promise una coltellata. Uno stava per ingaggiare un corpo a corpo con il primario”. Scene di anormale quotidianità.

Ma, in fondo, non è stato mai troppo diverso. C’è chi riapre gli album del passato ormai distante: “In servizio in provincia di Palermo, tanti anni da. Entra un tipo piuttosto brutto che mi dice gentilmente: ‘Dutturi, m’avissi a dari cocchi reci, venti mila lire’. Una via di mezzo fra una richiesta di elemosina e una rapina. A un certo punto, ha tirato fuori il coltello. I miei colleghi montavano, chi con una pistola, chi con una spranga… Io no, ero disarmato”. Ancora oggi è così per certi seguaci di Ippocrate. Picchiati, ammassati, strattonati, minacciati. E senza difesa.

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21 Agosto 2019, 06:12

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