PALERMO – “Dal 2010 ci andavo io. Prima c’era il nonno che pagava a Salvatore Ingrassia, poi hanno dato la gestione a questo nipote…ci dissi di mettersi a posto perché suo nonno pagava a chi doveva pagare, lui mi ha detto che non c’erano problemi”. Aveva raccolto un’amarissima eredità il giovane titolare di una tabaccheria del Borgo Vecchio: i boss di Porta Nuova non avevano perso di vista la sua attività commerciale e nonostante fosse cambiata la gestione, avrebbe dovuto sborsare 500 euro a Pasqua e a Natale.
A raccontare uno dei retroscena della seconda tranche dell’operazione “Panta Rei” dei carabinieri del comando provinciale di Palermo, è ancora una volta il collaboratore di giustizia Francesco Chiarello, dalle quali dichiarazioni emerge un sempre più dettagliato quadro della macchina del pizzo. Un meccanismo collaudato, che non risparmiava nessuno e si tramandava da padre in figlio e, in questo caso, da nonno a nipote. Una estorsione lunga più di dieci anni che il titolare dell’attività commerciale, messo alle strette dagli inquirenti, ha alla fine denunciato.
Nel racconto della vittima, però, viene a galla anche un maxi furto subito. Nonostante pagasse gli estorsori, una notte la sua tabaccheria fu svaligiata. Non riuscì a spiegarsi il perché, visto che i boss gli avevano garantito la “massima protezione”. Nel 2010 fu praticato un foro sul retro dell’attività commerciale e furono portate via sigarette, valori bollati, gratta e vinci e soldi in contanti per cinquantamila euro. “Misi Francesco Chiarello a conoscenza di quanto accaduto – ha detto il commerciante agli inquirenti – e lui mi disse che si sarebbe messo alla ricerca dei responsabili. Ho però avuto l’impressione che fosse già a conoscenza di quello che era successo”.
Il neo pentito del Borgo Vecchio, in effetti, quel giorno sapeva già tutto. Nella tabaccheria che da anni sborsava i soldi per il pizzo, il furto era stato commissionato dagli Abbate. “Gino Abbate (storico boss della Kalsa, detto Gino ‘u mitra, ndr), aveva bisogno di soldi – ha messo a verbale Chiarello -. Ci dissi che quello pagava, ma mi è stato detto che si doveva fare lo stesso. Poi il titolare ha protestato come un pazzo…però a noi non c’ha denunciato, ma a chiamato a me e mi ha detto: ‘Io questo mi merito?”. Io ci dissi che non c’entravamo niente e lui mi ha creduto”.
A riscuotere il soldi delle estorsioni era anche Giuseppe Minardi, 68enne finito in arresto nella seconda tranche dell’operazione antimafia. Sarebbe stato lui a intascare dal 1996 il pizzo pagato dal titolare di un chiosco di bibite. Il commerciante ha raccontato i suoi anni di inferno ai carabinieri: quasi un ventennio in cui avrebbe sborsato 500 euro per le festività. Già, perché le estorsioni erano cominciate ai tempi della lira.
“Ricordo che negli anni Novanta versavo 250 mila lire a Natale e altri 250 a Pasqua a persone del Borgo Vecchio che negli ultimi anni si sono poi alternate nella riscossione del denaro. L’ultima volta che ho pagato risale a circa tre anni fa, dopo non si è presentato più nessuno”. In base a quanto riferito dal pentito Chiarello, il commerciante avrebbe pagato fino a pochi giorni prima del suo arresto. “Aveva iniziato con “Diabolik” (il padrino del Borgo Vecchio Francesco Russo, arrestato nel 2008, ndr), poi pagava ad Ingrassia e poi a me tramite Pietro Minardi, mio parrino”. Un incubo senza fine alimentato dal silenzio e dalla paura. Un silenzio che al borgo Vecchio sette commercianti hanno deciso di rompere.