Avevamo quattordici anni. Il foglio sul banco era una trasparenza su altri mondi. Il quaderno di latino aveva lo stesso peso dei nostri sogni. Fuori c’era una luce vera che non abbiamo incontrato mai più.
Io vivevo a casa mia, in una stanza senza poster con un tappeto grigio buono per il Subbuteo. Il televisore Telefunken soddisfaceva i nostri desideri di telespettatori in bianco e nero. Anche il monoscopio ci sembrava bello. Leggevo Baudelaire, i fiori del male, perché mio padre mi aveva proibito quel libro maledetto. Gli avevo detto di sì ed ero andato a comprarlo alla prima occasione. Lo sfogliavo, da clandestino, sotto il banco, mentre il professore spiegava i verbi e le declinazioni. Rosa, rosae, rosae. Non ho mai più avuto dentro la stessa musica. La rosa sbocciava, mentre sussurravi il suo nome come una preghiera durante l’interrogazione. E la luce fuori, oltre il confine del banco, pienamente splendeva.
Tutto finì quando morirono Biagio Siciliano e Giuditta Milella, studenti del liceo classico ‘Meli’. Era il 25 novembre 1985, ventotto anni fa. La cronaca. “Una macchina di scorta ai giudici Leonardo Guarnotta e Paolo Borsellino, guidata da un carabiniere, carambolò su un’altra auto all’incrocio e finì la sua corsa nel cuore della fermata di piazza Croci. Biagio Siciliano, un ragazzo della IV D, morì quasi subito. Maria Giuditta Milella, della IIIB, spirò in ospedale, giorni dopo. Biagio era figlio di Nicola che faceva l’operaio e di Maria Stella. Maria Giuditta era figlia di Carlo, vicequestore, e di Francesca”. Fine della cronaca.
Avevamo quattordici anni. I più furbi sapevano già come corteggiare una ragazza. Anzi, nemmeno la corteggiavano. La vecchia arte dell’approccio stava scomparendo dal mondo conosciuto. Niente fiori, né lettere innamorate. Una strusciata a lento in corso bastava e avanzava. Sono scomparsi pure i lenti e quell’avvinghiamento tra il tenero e l’erotico. Sentivi il profumo della piccola donna che stringevi fra le braccia, vergognandoti un po’ della reazione del corpo. Il mini-uomo cingeva i fianchi. La ragazza abbracciava il collo. Ammoniva o incoraggiava le mani dietro la sua schiena. Furono anni di balli ferocissimi, che colavano con sensualità e dolcezza.
Qualche titolo lo ricordiamo ancora: “Say you say me” che innescava, a centro canzone, una sorta di indiavolata tarantella per riprendere subito dopo il suo ritmo da quieto e ondeggiante pascolo. “Time after time” sbucciava l’anima a poco a poco. I più audaci e ideologici (senza essere stronzi, ndr) ballavano sulle note di ‘Russians’ di Sting, con aria da Nosferatu immalinconiti. Pezzo struggente, ma con un retrogusto disperato che lo rendeva, forse, inadatto alle feste. Noi, alle feste, ci andavamo a piedi, spostandoci da un punto medio stabilito. Scarpinavamo per chilometri e quando finalmente arrivavamo a destinazione, venivamo raccolti in uno stato pietoso di sudorazione.
Cronaca. “Seguirono giorni convulsi. Guarnotta e Borsellino straziati dall’incidente e dal senso di colpa. I funerali, la rabbia della gente. Chi scrive, quel giorno, era alla fermata come tanti. E si salvò per un caso. Ora, è rimasta soltanto una targa, con un mazzo di fiori, alla fermata di piazza Croci. E al posto della scuola c’è una banca”. Fine della cronaca.
Tornai a casa, in quel giorno di novembre. Un uomo stava correndo verso la macchina, in pantofole, per precipitarsi sul luogo della sciagura. Io ero andato via a piedi e nulla sapevo dell’incidente. Perciò mi sorprese molto vedere mio padre che apriva lo sportello con la vestaglia addosso. Lui mi guardò con gli occhi di un fantasma che ha appena ritrovato il suo cuore.
Nulla fu mai più lo stesso. Eravamo ancora ragazzi, ma la morte era entrata nel nostro giardino fiorito, cambiandolo per sempre.
Il viso più luminoso che conservo di mio padre è quel qualcosa di indecifrabile, tra amore e paura, che aveva negli occhi il 25 novembre 1985. Lo avrei ritrovato nelle ore di tutti gli addii.
Fine della storia.