PALERMO – Igor Budan è uscito per un istante dal bozzolo impenetrabile del suo dolore. A un passo c’era il pallone che è la felicità di tutti i centravanti da zero a novantanove anni. Igor ha incornato, perché il centravanti incorna, con la potenza di un tuono e la grazia di una farfalla. La rete si è mossa. E quando la rete si muove come una bandiera c’è sempre il vento della felicità dietro. Poi Igor si è messo a correre per un secondo di liberazione. Il sorriso è morto subito. Le ali si sono staccate. Il bozzolo del dolore ha avvolto il prato e il cielo.
Triste il destino di Igor, ma non ce n’è uno come lui che ci insegni cosa voglia dire essere uomini, anche su un campo di calcio, nel mondo dei bambini mai cresciuti. La sua corsa è una fatica ad ostacoli, alla ricerca di una gioia mai goduta del tutto. Reti e infortuni a crocifiggere il fiuto del gol. E la croce da cui non ti stacchi: la morte di una figlia. Non c’è terapia tra il prato e il cielo che sappia guarirti da una pallonata così.
Igor Budan ci ha insegnato che il coraggio vive nel cuore di chi va avanti, di colui che continua a svolgere il suo lavoro, trafitto dalla lancia, dal morso di uno strazio che apre senza fine una ferita insanabile.
Igor riparte dalla terra e dal prato. Spinge avanti l’aratro. E solo la miopia di un allenatore stregone di tattiche e digiuno di uomini gli ha fin qui negato il suo legittimo posto, nel cuore della paura rosanero, per dare linfa e valore. Per uno che ha perso sua figlia cosa volete che sia lo spauracchio della B.
Budan il magnifico serve come il pane a questa squadra tremebonda di spettri fragili. Ci vuole uno che abbia solcato i veri mari tempestosi della vita e che stia lì, in mezzo al campo, per ricordarci che è solo un gioco. Che le tragedie dell’esistenza sono altrove. Sarebbe la cura giusta per il Palermo e per i suoi tifosi: capire che è necessario lottare, ma che si può perdere senza morire e senza disperazione, come risultato di un verdetto tecnico che al momento appare ovvio. E si può ricominciare a vincere, se ci riesce uno che ha smarrito la parte migliore di sé e sta sul campo, calmo, con un sorriso triste, senza dare segni di cedimento.
L’abbiamo amato troppo poco questo grande uomo, questo campione, questo maestro. L’abbiamo abbracciato con poca forza. L’abbiamo messo nel ripostiglio troppo in fretta, con colpa imperdonabile di tecnico e ambiente. Ma lui è tornato con la sua splendida modestia. Quando una stagione disgraziata sarà comunque agli sgoccioli, ci volteremo indietro e sapremo che valeva la pena passarci dentro, qualunque sia il verdetto. Valeva la pena vedere Igor con le sue ali di farfalla, nel momento del volo, ancora una volta.