“Mario Francese a lungo in ombra | Ora vi dico chi era mio padre”

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28 Marzo 2017, 17:21

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Quella di Mario Francese, cronista di giudiziaria al ‘Giornale di Sicilia’, è una storia di coraggio e di dolcezza. La dolcezza di una vita familiare piena di affetti. Il coraggio di un uomo che ad essa seppe rinunciare, per compiere, fino in fondo, il suo lavoro. Fu assassinato il 26 gennaio del ’79, sotto casa, in viale Campania, a Palermo da quei sanguinari corleonesi la cui ascesa aveva cominciato a raccontare. Ieri, il premio giornalistico dedicato alla sua memoria, ha annotato la vittoria delle ‘Iene’ e la menzione di tante penne siciliane, per il loro impegno. Sul palco della cerimonia, il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Riccardo Arena, e Giulio Francese, figlio di Mario, che accorse per primo sul luogo dell’esecuzione, senza ancora sapere che quel corpo a terra apparteneva a suo padre.

 Giulio, come è nato il premio?

“Ha avuto inizio nel ’93, a Siracusa, città che ha dato le origini a mio padre, per iniziativa di alcuni colleghi. Era una manifestazione intima, in una discoteca, l’avvio di un percorso”.

 Poi che è successo?

“Nel ventennale della morte, nel ’99, ho scelto di portare tutto a Palermo, nella città che lo aveva dimenticato, per rompere il silenzio”.

Il silenzio? Perché?

“Bisognerebbe chiederlo a troppi giornalisti. Dopo pochi mesi, Mario Francese era stato già cancellato. Alcuni ne parlavano come di un visionario, di uno che se l’era andata a cercare, di un imprudente amante degli scoop, che voleva atteggiarsi a protagonista. Ma lui era davvero un protagonista e aveva capito tutto, scrivendo della nuova Cosa nostra che calava da Corleone per regnare. Tutti spunti di un filone che si sarebbe dimostrato ricco delle sue intuizioni”.

Come venne accolta l’idea di trasferire il premio?

“Mio fratello Giuseppe non era d’accordo, anche se con un dissenso rispettoso. Io parlavo di riconciliazione con Palermo. Lui era arrabbiato con una capitale ipocrita che non meritava un tale dono alla vigilia del processo. Nell’anno successivo, ci aiutò con la mostra. E’ stato lui, per anni e anni, a raccogliere gli articoli di papà. Grazie a Giuseppe, oggi, possiamo leggerli”.

Grazie a Giuseppe, l’inchiesta e il processo hanno avuto un impulso importante. Ma questa è un’altra pagina dolorosa della vostra vicenda familiare, culminata nel suicidio di tuo fratello.

“Sì, lui ha pagato con la vita tanto amore. Noi ci siamo sempre ritrovati, nonostante qualche differenza di opinione. Giuseppe è stato un generoso e impagabile compagno di viaggio”.

Che padre era tuo padre?

“Non molto presente tra le mura domestiche. Lavorava con una incessante energia e non si stancava mai. Batteva tutti i processi e le cancellerie. Allora non c’erano né i computer, né le conferenze stampa. Dovevi scovare le notizie e i giornali pubblicavano storie diverse. Mario Francese non era un cesellatore, scriveva dieci pezzi al giorno. Praticamente, abitava al giornale. Ogni tanto, passava dalla Vucciria a fare la spesa. Coltivava un rapporto fraterno con la città e con i suoi poveri che lo trattavano da amico. Non frequentava i salotti”.

Lasciava mai trapelare la sua inquietudine?

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“Mai. A casa non accennava a rischi del suo lavoro, nonostante le minacce. Con me aveva un rapporto bellissimo. Ho cominciato a scrivere a quindici anni. Mi insegnava tutto. Anzi, aveva la voracità di insegnarmi ogni particolare, come uno che sa che prima o poi gli mancherà il tempo. Alle volte si immalinconiva e coglievamo uno sguardo triste. Pensavamo che fosse preoccupato per il suo cuore ballerino, già colpito da un infarto. Era la mafia. Papà andava avanti comunque. Il giornalismo era la sua vita”.

Quel giorno. Il 26 gennaio del 1979.

“Scesi dall’autobus alla fermata vicina a viale Campania. Vidi un capannello e le scarpe di un uomo disteso. Mi avvicinai curioso. Non pensavo che potesse essere papà. Fu Boris Giuliano, un poliziotto valoroso che avrebbe pagato con la vita per la sua abnegazione, a fermarmi e raccontarmi ogni cosa con la massima delicatezza”.

Apriamo ancora una finestra sul premio. Hanno vinto ‘Le Iene’: che significa? E’ una sconfitta del giornalismo tradizionale?

“No. E’ una sferzata, uno stimolo ad apprendere nuovi linguaggi, a misurarsi con rinnovati contesti e con altri prodotti. Il giornalismo consiste nel porre domande semplici, anche quando sono scomode. E non è morto affatto. Deve cambiare pelle”.

Giulio, mi parli della tua antimafia?

“Per me fare antimafia significa educare alla responsabilità, soprattutto i più giovani, raccontare le biografie di chi è si è sacrificato per l’impegno e per i valori. Per me l’antimafia è memoria che non si limita al ricordo, ma sottolinea la lezione che ci hanno lasciato alcuni uomini coraggiosi che non hanno perso, anche se sono stati barbaramente assassinati. Hanno vinto, infatti. Nemmeno la violenza più atroce è riuscita a cancellare ciò che erano e gli ideali in cui credevano. Io non do lezioni a nessuno, ovviamente. Racconto, vivo, spero”.

Da anni, scegliete una scuola – quest’anno il liceo ‘Regina Margherita’ – per la cerimonia di consegna dei premi. Perché?

“Una scommessa che ho voluto fortemente io, per lanciare un ponte ai giovani. Che non sono per niente superficiali, perché, invece, li vediamo curiosi, attenti e sensibili. Solo, hanno bisogno di guide ed esempi appropriati. La memoria è energia pulita. E poi scopriamo la grande bellezza delle scuole. L’aula magna, la passione, le facce pulite, l’amore per il coinvolgimento. Un patrimonio inestimabile. E devo dire grazie all’Ordine per essere stato al nostro fianco, nel ricordo di mio padre e di tutti i giornalisti caduti sul campo”.

I giovani sono i figli. Tu sei un figlio. Come rivedi tuo padre, se chiudi gli occhi?

“Lo rivedo sorridente, come se il male non fosse mai accaduto”.

 

 

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28 Marzo 2017, 17:21

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