I sopravvissuti di Montevago hanno acceso il televisore. Hanno sentito un tremito al cuore, una scossa dalla magnitudo infinita. Hanno visto le macerie abruzzesi e hanno ricordato. Un amarcord di lacrime.
Poi, dopo le lacrime, i sopravvissuti di Montevago hanno scoperto una tremenda felicità che non potevano dirsi in faccia. Era logica ma sarebbe apparsa oscena davanti ai cadaveri dei loro fratelli di sisma. E’ la gioia di avercela fatta, di avere ricostruito una comunità smembrata, nonostante tutto. Ecco il nome della felicità sepolta come un corpo senza vita tra le pieghe della pena.
Montevago, piccolo paese di Sicilia, fu spazzato via il 15 gennaio del 1968 dal grande terremoto del Belice. Morirono più di cento persone. Da allora – riferisce la gente di qui – aiuti di Stato ne sono arrivati pochi. Gli agricoltori e gli operai di queste terre si sono rimboccati le maniche. Hanno rimesso su quello che era caduto, con abnegazione e sudore. E pazienza se qui si sentono tutti eterni superstiti, come capita a coloro che hanno subito il terremoto. Pure se sono venuti alla luce dopo, hanno macerie e polvere nella carta d’identità.
La rabbia del sindaco: “Aspettiamo i soldi”.
Sulla sedia più alta dell’amministrazione comunale c’è un autentico sopravvissuto. Si chiama Antonino Barrile, è sindaco del 2006. “Il 15 gennaio del 1968 – ricorda – ero a Palermo. Così mi salvai. Tornai a Montevago la mattina dopo. Grazie a Dio, a casa mia, stavano bene”. Il sindaco Barrile – targato Pd, ma a capo di una coalizione “contaminata” – sfoglia il taccuino con spirito di comprensibile tigna: “Abbiamo avuto qualcosa, soprattutto dal governo Prodi. All’appello mancano circa cento milioni per la ricostruzione, fondi previsti dalle finanziarie o promessi. Abbiamo mostrato un grande pregio. La popolazione non ha atteso che calasse la mano dall’alto. La rabbia resta, ovvio. Ci sentiamo terremotati di serie C”. Il sindaco è un’impetuosa piena, nella difesa dei diritti dei suoi concittadini: “Siamo stati dimenticati”. La rabbia si stempera nel cordoglio: “Abbiamo rivisto in televisione le scene dell’Abruzzo. Dico che le abbiamo riviste, perché è stato come riavvolgere un nastro. Il terremoto, se lo incontri sulla tua strada, se sconti questa disgrazia, non lo dimentichi più. Noi a Montevago abbiamo realizzato il miracolo della rinascita. Sono sicuro che i nostri amici abruzzesi avranno lo stesso coraggio”.
La memoria storica della tragedia
Piovono abbracci dal piccolo popolo di Montevago per gli altri confratelli di dolore colpiti dalla tragedia. Sono braccia calde e sincere. Nascono dalla condivisione, non dalla retorica. Calogero Giordano ha novantacinque anni. E’ l’anagrafe vivente, il libro mastro degli eventi del suo paese. Lì, nel suo luogo della memoria, c’è una chiazza di orrore che non si può cancellare: “C’era stata una prima scossa di pomeriggio. Quella mortale arrivò di notte. Io ero in giro con un mio operaio. Lavoravo come imprenditore, scappammo appena in tempo”. Calogero pagò carissimo il prezzo della sciagura. “Un fratello e due nipoti, mio cognato e suo figlio morirono sotto le macerie. Tra i nipoti ce n’era uno che si chiamava come me. Era la mia gioia, la mia speranza, il mio futuro. Aveva appena diciotto anni”. Calogero rammenta: “Andai da mio fratello, la sua casa era giù per terra. Vidi i suoi capelli sporchi di sangue tra le macerie e i calcinacci. Era morto abbracciato ai suoi due figli”. Sono le stesse scene che la tv e i giornali riportano adesso. E’ la stessa storia della madre che è morta avvinghiata alle sue figlie, nel tentativo di salvarle.
Ero un ragazzo di diciassette anni…
Filippo Ganci è cresciuto con l’incubo del terremoto. Si avvicina a Calogero e narra la sua parte. E’ come se, a distanza di tanti anni, ci fosse ancora il bisogno di sgravare mente e corpo da un peso. Di spegnere una fiamma che torna ad accendersi senza misericordia. La piazza che accoglie un cronista con le sue domande diventa un crocevia di destini, una terapia per la consapevolezza dello strazio. Tocca a Filippo dunque: “Avevo appena diciassette anni. Sentimmo le macerie tremare e ci posizionammo in cerchio, abbracciati, in piazza. Solo quelli che erano al centro del cerchio riuscirono a salvarsi. Gli altri furono travolti o inghiottiti dai calcinacci. Li vedemmo morire e tendere le mani verso di noi, senza potere intervenire. Poi mi sono impiegato al Comune. I registri anagrafici hanno finito di spiegarmi per bene la portata della tragedia. Intere famiglie spazzate via e cancellate, un genocidio della natura”.
La tragedia dei bambini sepolti
Il terremoto che sconvolse Montevago non risparmiò i bambini. La contabilità delle bare bianche fu alta, esattamente come accade oggi in Abruzzo. I ruderi avvolgono il paese, per ricordare ogni cosa. Catapecchie sventrate, lapidi su lapidi, un cesso di nuovo conio abbandonato tra le rovine, in un oceano di fiorellini bianchi e giallini. Cartoline.
Nella piazza, la gente si addensa. Un anziano con la coppola racconta: “Giuseppe e Antonella persero tre figli piccoli quella notte. Sono morti l’anno scorso, tutti e due, di malattia. Almeno sono morti insieme”. E mentre si parla di Giuseppe, di Antonella e della loro vita perduta, della strana benedizione di una fine contemporanea che non ha permesso che l’una sopravvivesse all’altro, ti sembra di rivederlo il grande terremoto nel Belice. Lo rivedi negli occhi di quelli che si avvicinano per ascoltare, per dire, per sfogarsi. Lo rivedi nelle lacrime vecchie e nuove che attraversano le guance di Calogero Giordano. Aprono la strada alle rughe, le riempiono. Sono nipoti smarriti e frammenti di case cadute. Sono crepe nella tenera pietra del suo viso.