PALERMO – In carcere comandano loro. Un drappello di detenuti si impone con la forza nel penitenziario Pagliarelli di Palermo intitolato ad Antonio Lorusso, l’agente di custodia ucciso nel 1971 assieme al procuratore Pietro Scaglione.
Uno spaccato disarmante emerge dall’ultima inchiesta della Procura di Palermo che ha portato all’arresto di 12 persone, compresi due agenti della polizia penitenziaria.
I cellulari e la droga che circolavano in carcere sono la spia di qualcosa di molto più ampio e grave. Per alcuni l’unica differenza fra il mondo esterno e il carcere è la privazione materiale della libertà. Qualcosa di non irrinunciabile alla luce dei precedenti penali. Per il resto sopraffazione, violenza e guadagni illeciti sono una costante.
È il fallimento del carcere come luogo rieducativo. Il giudice per le indagini preliminari Claudia Rosini, che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare, scrive che i detenuti del carcere Pagliarelli hanno la “possibilità di consolidare, incrementare e perpetuare la loro posizione di potere all’interno della nuova comunità”. Palermitani e catanesi si dividono il controllo dei reparti.
Nelle carceri in “condizioni assolutamente obsolete continua incessante l’interscambio di comunicazione e informazioni”. Il corpo della polizia penitenziaria “quando non colluso” è “comunque umiliato, alla mercé del potere dei detenuti percepiti inevitabilmente quale più forti”. Gli agenti vivono sotto scacco, temono ritorsioni dentro e fuori dal carcere, a fronte di “una retribuzione inadeguata”.
Da questo scaturisce “un atteggiamento di diffusa docilità rispetto ai colleghi e detenuti all’insegna del quieto vivere e del chi me lo fa fare”. Talmente diffusa che sono 12 le persone arrestate perché gestivano l’ingresso di droga e cellulari in carcere, ma il numero degli indagati sale a 44 considerando tutti i detenuti che hanno goduto dei servizi extra. Bastava pagare. Tutto questo avveniva in un carcere dove il rispetto delle regole dovrebbe essere preteso e garantito.
Ha ragione il procuratore Maurizio de Lucia quando dice che “i tempi del grand hotel Ucciardone sicuramente sono stati superati anche grazie all’introduzione del carcere duro, ma i boss hanno ancora la capacità di comunicare all’esterno”. Al carcere Pagliarelli lo Stato non c’è, o se c’è si è distratto.