Quando Zamparini era uno di noi | L'ultima notte rosa della felicità - Live Sicilia

Quando Zamparini era uno di noi | L’ultima notte rosa della felicità

Guidolin e Zamparini dopo Palermo-Triestina

Palermo-Triestina. La notte della serie A. Ora che una grande storia sta finendo, è dolce ricordare.

Rivedendo i filmati di repertorio viene addosso una felicità che fa male. Facce tinte di rosanero in preda all’orgasmo. Signori anziani che avevano salutato l’ultima serie A e giovanotti che erano stati a Trapani, per vedere giocare l’armata di Musella e soci, dentro la stessa danza, sotto lo stesso cielo. Maurizio Zamparini al centro del prato del ‘Barbera’ con i pollici alzati e ai suoi piedi una comunità che lo amava e lo adorava, che lo avrebbe eletto sindaco, in un rimbalzo di sentimenti molto diverso dal rancore con cui il patron friuliano e i suoi tifosi stanno per lasciarsi.

Fu una notte inestimabile quella di Palermo Triestina (3-1) che riportò i rosa in serie A, il 29 maggio del 2004, dopo più di trent’anni di inedia. Ricordarla adesso, al culmine di un amore finito da un pezzo e che aspetta solo le carte bollate, tra il sor Maurizio e i palermitani, significa riprendere un’antica pagina di gloria stropicciata, conservarla gelosamente, per non dimenticarla più. E ognuno ha la sua piccola storia, dentro quella grande storia. Questa è appena la mia.

Alle cinque della sera, il caposervizio del mio giornale di allora mi guarda con l’aria di chi non sa se può fidarsi. Si fida. “Stasera c’è Palermo-Triestina. Abbiamo i nostri cronisti allo stadio. Mi serve qualcuno che copra il tifo per le strade. Vai”.

Da mesi la gente cantava e aspettava. Da Mondello all’Oreto era tutta una indistinguibile marea. Avevano ridipinto con i colori sociali vecchi motorini abbandonati, panchine in disuso, facciate di catapecchie sdirupate. Il sogno aveva unito i ‘fighetti’ di viale Strasburgo e i ‘picciotti’ dello Zen. Non era soltanto calcio, ma uno sguardo diverso. Si respirava insieme. Si sperava insieme. Si viveva insieme.

Piazza Kalsa, col maxi-schermo montato per la diretta a quindici minuti dal fischio d’inizio. Voci e frammenti da viale Del Fante. Zamparini che incede con Giacomino, panzuto simbolo della passione. Gianluca Berti che osserva la curva strapiena e una lacrima imperla i suoi occhi da bambino mai cresciuto, prima che una mano scuota per tre volte il petto, lì dove batte il cuore. Tanino Vasari che sorride. Francesco Guidolin, il mister, accovacciato, al suo solito, a bordo della panchina, come un capitano di lungo corso che scruti qualcosa a pelo d’acqua.

Ci sono centinaia di persone alla Kalsa. Qualcuno si è accomodato su muretti, per terra. Altri si sono portati la sediolina pieghevole da casa. E’ rimasta in piedi la signora Concettina, dall’apparente età di centoquarantadue anni, bassa di statura, estesa come tre copertoni di camion. Un adolescente galante le cede il posto. Concettina si accomoda. In quel preciso momento, Luca Toni segna di testa. Uno a zero. In forza della cabala e della cortesia, la signora Concettina non si alzerà più.

Incidente clamoroso all’impianto. Ed è subito panico. Un malcapitato inciampa in un cavo. La visione si interrompe. Il protagonista del contrattempo si eclissa per non essere linciato a colpi di stigghiola. Febbrili tecnici improvvisati accorrono per rimediare. Nel frattempo, tutti sono colti dalla classica angoscia dell’appassionato: le cose importanti accadono sempre – si sa – mentre tu non stai guardando. Si favoleggia di una tripletta di Toni in due minuti, l’ultima marcatura di natica su rimpallo. Oppure, vuoi vedere che i triestini hanno segnato sette gol, perfidamente, a tradimento?

Il bisogno aguzza l’ingegno. Un capataz afferra un altoparlante: “Zittiii, ho mio fratello allo stadio. Ora ci chiamo e mi fazzu riri”. Il popolo trattiene il fiato, mentre un ditone compone il numero. “Ninù (pausa). Chi successi? (ancora pausa carica di tensione). Aaaaaahhhh (fibrillazione al culmine). Ok. Chiudo, ciao. Dunqueeee (silenzio presago di sventure), mi rissi me frati ca un successi un c….”. (Oooooh finale di liberazione).

Riprende il collegamento. Luca Toni raddoppia e corre, roteando le dita all’orecchio, quasi impazzito. Tale Mantovani prova a indossare i panni del guastafeste, segnando, per loro, nella porta di Berti. Provvede uno dei gemelli Filippini, Emanuele, a reindirizzare la sorte col tiro della pulce (dicesi di conclusione lenta, prevedibile, eppure vincente). Tre a uno. Sul bordo del prato, piange Gaetano Vasari, picciotto della spensierata truppa di Ignazio Arcoleo. Pensa a suo padre a cui aveva promesso: riporterò il Palermo in A. Tanino segnerà col Bari, allo sgocciolare della stagione e indicherà il cielo con un dito.

La festa attesa per settimane di tinture e striscioni si compie. Tutti si precipitano verso piazza Politeama: in confronto il Carnevale di Rio retrocede a torneo condominiale di briscola in cinque. Attempati dirigenti regionali con la parrucca si mischiano a madame dell’alta società con la maglia di Corini, il più grande Capitano di sempre. Qualcuno ha con sé il Super Santos per organizzare una partitella celebrativa in notturna. Il mitico S.S. si infilza subito sul cancello del teatro, sgonfiandosi con un malinconico ‘plop’.

Storie nella storia. Marco aveva partecipato al funerale sportivo del Palermo, nel meriggio triste della radiazione. Era sicuro che non avrebbe visto mai più un pallone rotolare sul terreno della Favorita. Fulvio era andato a sostenere la squadra contro la Juve Stabia in C2, nonostante l’acquazzone e la polmonite ed era convinto che niente di tanto bello come la rovesciata all’ultimo secondo di Santino Nuccio sarebbe mai più esploso nella sua anima di aficionado. Domenico marinava la scuola e la lezione di matematica per andare agli allenamenti, i suoi non l’hanno mai saputo. Vito si era fatto le ossa sulle tribune più scalcagnate d’Italia, in paesotti di cui nessuno più rammenta il nome. Maurizio lavorava come medico in Piemonte e non perdeva mezza partita.

E sono lì, in carne, ossa e trasalimenti, sotto la luna della serie A dopo trent’anni, con i loro capelli brizzolati, imbiancati appresso a un’illusione trasformata in realtà. Credono che si sia spalancata la porta di un agognato Paradiso. Che la promozione rappresenti soltanto l’incipit di una favola. Finalmente, la città che amano e che li ha traditi li amerà; sarà migliore, più bella, più giusta.

Dalle parti di via Volturno, un vecchietto con la coppola si affaccia dalla finestra un po’ allarmato, anzi sgomento, per via del frastuono di clacson e grida. “Ma che ci fu? E’ scoppiata la guerra?”, chiede. No, il Palermo è stato promosso in serie A. Lui rientra, richiudendo le imposte, indignato, con la certezza di essere stato preso in giro. Il conflitto mondiale compone un’ipotesi molto più verosimile. Io torno in redazione, nel mio giornale di allora, carico di lacrime e sorrisi che non dimenticherò. I fattorini festeggiano con spumante caldo e bicchierini di carta: “Nni vo?”.

Perfino fra i giornalisti, progenie notoriamente scettica, serpeggia un moderato entusiasmo: vuoi vedere che si cambia davvero? Eppure, già lo annuso. Avverto un sentore d’ombra in tanta luce: e se fosse l’ultima volta, non la prima? Ma non ci penso troppo. Devo scrivere cento righe. La notte che diventa alba è tenera. E l’alba, infine, verrà.

Adesso, osservando le macerie di tutto, non solo del calcio, a Palermo, mi rendo conto che la fitta dolceamara era stata profetica, anche se non le avevo dato ascolto. Quella era già l’ultima notte della nostra gioia. Non ce ne sarebbero state più a una altezza talmente stratosferica. Avremmo cantato, ma non così: con una identità assoluta tra spalti e persone. Non saremmo stati mai più così innamorati, così fratelli, così felici. Non saremmo stati ancora così orgogliosamente palermitani. Mai più.

 


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