Quella faccia facciosa

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06 Luglio 2012, 15:30

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Charlie Brown ha, fra gli innumerevoli altri, un problema: quello di possedere una faccia facciosa. Non è chiarissimo che cosa Lucy intenda quanto gli rimprovera questa sua curiosa proprietà fisiognomica: piattezza dei tratti? Mancanza di carattere? Fatto sta che lui ne soffre moltissimo. Avere una faccia facciosa è, possiamo immaginarlo, essere tutto faccia, nient’altro che viso, figura. E abolire perciò, paradossalmente, con il resto del corpo la faccia stessa, rendendola insignificante, qualsiasi. Direbbero i linguisti: il grado zero della faccia.

C’è un modo per capire il sentimento di perplessità, e insieme la sofferenza, del povero, celeberrimo bambino dalla faccia facciosa: farsi sparare a mo’ di testimonial su giganteschi cartelloni pubblicitari prima ancora di valutarne per bene gli effetti. A quel punto, immediatamente, diventi tutto faccia, nient’altro che faccia. Sei un nessuno, hai soltanto un viso: possiedi, appunto, una faccia facciosa.

La prima reazione è di sgomento: mamma mia, che cosa ho fatto?! Poi di straniamento: sono io quello là? Non hai più tempo di pensare, solo voglia di nasconderti, aspettare che passi la bufera. Ma capisci che è tragicamente stupido: puoi farti risucchiare al centro della terra, tanto tu, cioè la tua faccia, è là, in quei sei per sei che svettano verso il cielo, in quelle fiancate e pensiline d’autobus, in quei pannelli che dondolano sotto i nomi delle strade… Inutile fare la faccia di bronzo.

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La seconda è di stizza, perché vedi che gli altri, tutti gli altri, persistono nel guardarti in modo diverso. Innanzitutto proprio ti guardano, e con insistenza, come se non fosse possibile che quella tua facciona facciosa che fa tanto paesaggio urbano possa ritrovarsi in te, nella parte anteriore della tua testa, sopra quel tuo corpo che la porta (sfacciatamente!) in giro. E hanno ragione da vendere. Poi iniziano a differenziarsi le categorie.

Ci sono i sibillini, quelli che fanno sforzi da morire per far finta di nulla, parlando d’altro ma in realtà non guardandoti in faccia, segnalando con la loro ostentata indifferenza la parte sensibile di te che quei manifesti stanno urlando. Ci sono i benevoli, quelli che sentono il dovere di dire qualcosa, cercando di sovrapporre al compatimento nei tuoi confronti improbabili forme di rassicurazione. La maggior parte di questi la buttano sull’estetica: ma lo sai che sei venuto proprio bene? Complimenti per la fotogenia! Ma t’hanno truccato? Hanno ritoccato la foto al computer? E altre analoghe piacevolezze.

Poi ci sono le variazioni individuali: ma quanto ti hanno pagato? Ma chi sono gli altri? Ma l’hai fatta tu questa campagna? Ah, quanto mi hai fatto ridere! Eh, che bella idea! Arriva qualche sms di congratulazioni. Inizi a scaricare mail di persone che non vedi da trent’anni e che, per l’appunto, continui a non vedere, solo che loro invece ti vedono, chissà, forse come una specie di apparizione magica, una reincarnazione al tempo stesso parziale ed enfatica del loro sbiadito ricordo d’antan. Pochissimi, manco a dirlo, parlano di quello che, detto in burocratichese, è l’oggetto della campagna pubblicitaria: segnali un solo caso di un tizio, assai fuori dalla norma, che ti dice: sai, sono andato a leggere il giornale che pubblicizzi. Ma non importa, la regola della comunicazione è sempre la stessa: tutto fa brodo, purché se ne parli. Solo che certe volte le facce facciose, loro malgrado, scuotono ciò che non stanno solo a guardare.

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06 Luglio 2012, 15:30

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