PALERMO – Pare che Silvana Saguto non nutrisse grande stima per il commercialista Maurizio Lipani. Non riponeva in lui la fiducia necessaria per affidargli le amministrazioni giudiziarie. Altri non la pensavano come l’ex presidente delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Lipani, infatti, di imprese sequestrate, in sede di misure di prevenzione o in sede penale, ne gestiva parecchie. In Sicilia e in altre città italiane. Adesso sarà fatto uno screening e inevitabilmente arriverà la revoca degli incarichi da parte della presidenza del Tribunale.
È nel passaggio fra il sequestro e la confisca dei beni che si addensano le maggiori ombre. E cioè in quella fase in cui i beni transitano dal controllo dei Tribunali a quello dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati.
“Il meccanismo delle misure di prevenzione non c’entra. Siamo davanti a un singolo soggetto infedele”, ha detto ieri il procuratore Francesco Lo Voi. È vero: il sistema per il quale è finito sotto processo Saguto era molto più ampio, ma il caso del commercialista Lipani dimostrerebbe che se da un lato l’allarme stavolta è suonato, dall’altro per un lungo periodo il meccanismo dei controlli non ha impedito la mala gestio.
L’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia è partita da una segnalazione bancaria di operazioni sospette. Le banche, ma anche i notai, gli avvocati e i commercialisti, hanno l’obbligo di segnalare le situazioni finanziarie poco trasparenti in cui si imbattono. Non sempre accade, ma stavolta è andata bene. Le operazioni sono state segnalata alla Direzione nazionale antimafia che le ha girate alla Procura di Palermo.
I pubblici ministeri Francesca Dessì e Gianluca De Leo, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Guido, hanno assegnato la delega di indagini alla Direzione investigativa antimafia. Gli agenti della Dia di Palermo e Trapani, agli ordini del colonnello Paolo Azzarone, hanno messo gli occhi su un giro vorticoso di oltre 350 conti correnti su cui Lipani poteva operare.
Incomprensibile è la scelta di aprire nuovi conti intestati alle società che il commercialista gestiva. Doloso, invece, sarebbe il successivo passaggio di denaro che lui stesso disponeva sui conti personali. Le voci erano “saldo fattura” , “giroconto”, “spese”, “caparra acquisto Id307”, “acconto prezzo cessione studio”. Lipani, infatti, oltre ad autoliquidarsi le parcelle per il lavoro di amministratore (la legge prevede che si passi dall’autorizzazione del giudice) averebbe utilizzato soldi non suoi per pagare il commercialista dal quale aveva rilevato uno studio a Vittuone, in provincia di Milano. Ecco perché a Lipani viene contestato il peculato, ma anche il riciclaggio dei soldi della Glocal Sea Fresch, e cioè la società confiscata ad Epifanio Agate e alla moglie Rachele Francaviglia che Lipani era stato chiamato a gestire dal Tribunale di Trapani.
Non è tutto perché ci sono movimenti di denaro che riguardano altre amministrazione giudiziarie. Ad esempio quella della Amadeus spa. Gli strani movimenti di denaro sono andati avanti per anni e fino al 2018. A febbraio 2019 la Dia ha chiesto informazioni al Tribunale ed è emerso che Lipani non aveva effettuato alcuna rendicontazione e non c’erano le autorizzazioni per eseguire i bonifici. Il Tribunale ha prima diffidato Lipani che ha continuato a non rispondere e lo scorso giugno gli è stato revocato l’incarico.
Bisogna però fare un passo indietro. Nel 2017 la “Moceri società agricola” (l’impresa a cui Lipani avrebbe sottratto più di 300 mila euro) è passata in confisca. Lipani ha cessato di essere l’amministratore giudiziario e l’Agenzia per i beni confiscati ha nominato due nuovi coadiutori. Il commercialista, però, ha continuato ad operare sul conto corrente. Nei mesi di maggio e giugno scorsi ha prelevato 32 mila euro in contanti, disposto in suo favore un bonifico da 91 mila euro, e ricevuto altri due pagamenti per 20 mila euro.
Lipani, troppo indaffarato a garantire i propri interessi, sostiene l’accusa, mentre gestiva le aziende affidategli prima dalla magistratura e poi dallo Stato, non si sarebbe accorto che Epifanio Agate continuava ad essere il dominus delle imprese del settore ittico. Era come se non fosse mai intervenuto il provvedimento della magistratura. Agate e la moglie si occupavano della compravendite di merce e incassavano i pagamenti in un magazzino a Mazara del Vallo che era sfuggito all’immissione in possesso.
Anche il magazzino era come se non esistesse. Ed invece vi veniva stoccata la merce senza che Lipani si fosse accorto di nulla. I commercianti, sentiti dagli investigatori, non lo hanno mai incontrato. Alcuni non sapevano neppure della sua esistenza. Sapevano, però, che l’azienda era stata sequestrata ad Agate, ma nessuno ha osato fare un passo indietro di fronte alle proposte commerciali del figlio del boss Mariano. Lipani avrebbe gestito male le aziende. Anche Silvana Saguto, il giudice dello scandalo, non si fidava del commercialista.