Se il Pd confonde codice e politica

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19 Aprile 2011, 10:41

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Dobbiamo prendere atto che, dopo la riconsiderazione circa l’appoggio al governo regionale, “consigliata” caldamente da Roma, da cui è venuta pure una mezza marcia indietro, il Pd siciliano continua a mescolare, confusamente, la questione penale e quella politica. Si tratta di due aspetti che devono seguire canali diversi. Il primo, quello penale, riguarda il singolo. Esso ha tutto il diritto di difendersi. Può dichiararsi innocente sino a prova contraria e addirittura, pure dopo una sentenza passata in giudicato, ritenersi intimamente esente da errori e considerare ingiusto il risultato finale dell’iter giudiziario. Ad ognuno deve essere concessa la possibilità di un’irriducibile difesa del proprio onore, anche se è rinchiuso in una cella. Diritti da indagato, da imputato, da condannato e da carcerato. E’ questo il garantismo che deve essere assicurato a tutti.

Se, però, in qualsiasi grado delle indagini o del giudizio ci si trovi, si vuole costringere una vicissitudine giudiziaria nell’alveo della politica, cominciano le dissonanze tra due linguaggi che non sono fatti per stare insieme. L’attività politica è composta, in estrema sintesi, da consenso, rappresentanza e governo. Questi assi fondamentali della vita pubblica hanno come esclusivo partner il corpo elettorale e mai le aule di giustizia. Quando nel Pd si afferma che se finisce la loro avventura alla regione, a causa di vicende giudiziarie, brinderanno i berlusconiani e i nemici di questa esperienza, si attua una somma di due generi diversi. La procura etnea non si sta affatto occupando della qualità più o meno antimafiosa, dei provvedimenti del governo. Opporre questa, molto presunta, ma non è questo il tema, bontà delle azioni dell’esecutivo ai provvedimenti della magistratura, che riguardano necessariamente le persone, è quanto di più sbagliato si possa fare. E non fa bene né alla legge penale né a quella della politica.

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Se davvero i democratici ritengono di avere operato nel verso giusto, il loro unico pensiero deve essere rivolto non al giudice, ma all’elettorato. Se temono che la magistratura possa smontare la debole impalcatura politica che hanno messo in piedi, ciò è dovuto al fatto che hanno disatteso proprio le dimensioni del consenso e della rappresentanza, le uniche che danno diritto al governo della cosa pubblica. La loro casa è stata quindi, evangelicamente, costruita non sulla roccia, ma sulla sabbia della vittoria elettorale altrui. Nei prossimi, presumiamo caldi, e non solo per l’estate che si avvicina, simposi di partito, provino a lasciare le toghe nel cassetto, e indichino alla Sicilia una prospettiva di governo, che a questo punto non può che essere elettorale e a breve scadenza. Cercando questa volta di entrarci, nella stanza dei bottoni, dalla porta principale e non da quella di servizio. Perché quando si segue la via maestra si può anche fallire, ma se ne può sempre uscire a testa alta.

Adesso, invece, il Pd in qualche modo sortirà fuori dal vicolo stretto, ma ha perso talmente tanto tempo che rischia di farlo a capo chino, trovando macerie a destra e a sinistra e sin dentro lo stesso partito. Per carità, in politica, come nella vita, ogni giorno si rinasce e niente è mai pregiudicato per sempre. Ci vorrà, certo, un po’ di rieducazione fisica e mentale. Governare con il consenso degli altri è piuttosto semplice, un gioco da ragazzi, ma può far smarrire la consapevolezza che i suffragi devi averceli tu. E non è semplice ottenerli. Soprattutto con un partito ormai lacerato e con un elettorato di riferimento che ha cominciato a guardare altrove, come rivelato da un recente sondaggio. E’ inutile allora che i democratici rinviino assemblee e referendum. Li trasformino, semmai, da sanguinose rese di conti, in momenti utili per proporsi come una grande forza, quale in fondo sono, di cambiamento. L’elettorato sempre lì attende, sull’uscio del seggio elettorale. Rimandare l’incontro per paura, nascondendosi sin dentro i tribunali, non serve a nulla.

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19 Aprile 2011, 10:41

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