PALERMO – A lanciare l’allarme dalle colonne de Il Fatto Quotidiano è l’avvocato Carmen Di Meo, difensore di numerosi collaboratori di giustizia. Il ministero della Giustizia ha deciso di avviare una stretta sui soldi che vengono assegnati ai pentiti.
Il denaro che spetta al collaboratore per un nuovo progetto di vita non gli viene più bonificato direttamente. È lo Stato a pagare con degli assegni il venditore della casa, il notaio che stipula l’atto e i fornitori degli arredi. La legge prevede l’assegnazione di una sorta di liquidazione calcolata su cinque anni di “stipendio” percepiti dal collaboratore. Si parte da un minino di circa 60 mila euro, cifra che cresce se il pentito ha una famiglia. I
l legale si dice preoccupato perché il sistema degli assegni rischia di fare saltare la copertura garantita a chi ha voltato le spalle alla criminalità organizzata. Il fornitore si può insospettire di fronte a un assegno con un’intestazione poco chiara. Bisogna interrogarsi sul perché delle nuove regole. Il ministero ha scoperto che alcuni pentiti avevano incassato il denaro senza avviare alcun nuovo progetto di vita.
Se è legittimo che al collaboratore vengano garantiti anonimato e protezione per evidenti ragioni di sicurezza, altrettanto legittimo è, però, pretendere di sapere come viene speso il denaro pubblico. Perché è con lo Stato che i collaboratori siglano un patto. E lo Stato è stato spesso permissivo, se non addirittura clemente, di fronte a collaboratori che hanno violato gli accordi. Il collaboratore in base alla nuoca circolare ministeriale ha anche la possibilità di evitare il pagamento con assegni. Possono ricevere i soldi in contanti, ma devono rinunciare a una buona fetta dell’indennità. E così l’avvocato Di Meo fa sapere che molti suoi clienti si chiedono se davvero convenga essere ancora un collaboratore di giustizia. Domanda legittima, come legittimo è pretendere che lo Stato sia inflessibile con chi sbaglia.