Stato-mafia, il verbale di Napolitano | “Nel 1993 un ricatto dei boss”

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31 Ottobre 2014, 13:16

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PALERMO – La strage di via D’Amelio “rappresentò un colpo di acceleratore decisivo” per la conversione in legge del decreto sul carcere duro. E quelle del ’93 furono lette come “nuovi sussulti di una strategia stragista dell’ala più aggressiva della mafia”, lette in ambiente istituzionale come un “ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema”. Sono i passaggi principali della testimonianza resa da Giorgio Napolitano al processo sulla trattativa, trascritta appena tre giori dopo la trasferta romana della Procura di Palermo: Napolitano ricostruisce i giorni trascorsi fra Capaci e la fine del 1993, soffermandosi sulla figura di Loris D’Ambrosio – un uomo scosso, nei suoi ultimi giorni dalla pubblicazione delle telefonate con Nicola Mancino – e sulla reazione dello Stato alle stragi.
A partire, appunto, dal rapporto con il consigliere per gli Affari giuridici del Colle. Una persona che Napolitano dice di non aver conosciuto fino al 1996: “Lo conobbi dopo essere diventato ministro degli Interni del primo governo Prodi, nel maggio del 1996 – spiega il capo dello Stato – Fu sicuramente il professor Flick che mi presentò il dottor D’Ambrosio”. Che Napolitano trovò già al Quirinale, nominato da Ciampi e poi chiamato da Napolitano a occuparsi delle attività del Csm: l’inquilino del Colle lo dipinge come un uomo “animato da spirito di verità” con il quale però non aveva particolari rapporti personali, pur provando per lui “affetto e stima”. “Eravamo una squadra di lavoro”, sottolinea il presidente.
Ma è sugli ultimi giorni di D’Ambrosio, che si concentrano le domande. La lettera di dimissioni del consigliere, poi pubblicata in un libro a cura di Maria Falcone, arrivò come un “fulmine a ciel sereno” per Napolitano: “D’Ambrosio – dice il presidente della Repubblica – mi aveva solo trasmesso un senso di grande ansietà e anche un po’ di insofferenza per quello che era accaduto con la ubblicazione delle intercettazioni di telefonate tra lui stesso e il senatore Mancino, insofferenza che poi espresse più largamente nella lettera. Non mi preannunciò né la lettera, né le dimissioni”. Nella missiva D’Ambrosio spiegava di essere “preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Anche perché D’Ambrosio, come ricorda Napolitano, “solleva degli interrogativi che non sono da poco, l’interrogativo che qualcuno, sempre diciamo negli ambienti mafiosi, avesse saputo che (quello fatto da Falcone il 23 maggio 1992, ndr) poteva essere il suo ultimo viaggio, almeno per un certo periodo di tempo, a Palermo o che qualcuno in vari ambienti potesse cooperare a che non diventasse procuratore nazionale Antimafia”.
Poi, però, Napolitano parla anche di Capaci – che diede “un forte stimolo direi anche morale a trovare l’intesa necessaria per eleggere senza ulteriori prolungamenti il nuovo presidente della Repubblica” – e delle stragi del 1993. Di “quegli attentati, che poi colpirono edifici di particolare valore religioso, artistico e così via” che “si susseguirono secondo una logica che apparve unica e incalzante, per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut-aut, perché questi aut – aut potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure soprattutto di custodia in carcere dei mafiosi o potessero avere per sbocco la destabilizzazione politico-istituzionale del paese”. In quei giorni, dopo un misterioso black out a Palazzo Chigi, l’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi lanciò l’allarme “colpo di Stato” e lo stesso Napolitano fu avvisato di un possibile attentato ai suoi danni: “Io – afferma il presidente della Repubblica – fui informato, senza vedere carte, senza sapere di note del Sismi o di chicchessia, fui informato che c’erano voci, erano state raccolte da confidenti notizie circa un possibile attentato alla mia persona o a quella del senatore Spadolini”. L’avviso gli arrivò dall’allora capo della polizia Parisi, che in occasione di un viaggio di Napolitano a Parigi lo fece seguire “con discrezione” dai Nocs.
Ma Napolitano, che pur non si sottrae alle domande anche quando la corte le giudica inammissibili o superflue – risponde anche con qualche “non ricordo”. Il presidente, ad esempio, non rammenta chi abbia proposto l’ispezione nelle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara, né fu informato della lettera a Oscar Luigi Scalfaro che sollecitava la chiusura delle strutture. Ricorda invece che fu “molto probabilmente lo stesso presidente Violante” a informarlo della richiesta formulata da Vito Ciancimino di essere ascoltato in Antimafia e di non aver mai avuto colloqui con il colonnello, oggi generale, Mario Mori. E che mai nessuno gli parlò dei contatti fra l’ex sindaco e l’allora capo del Ros.

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31 Ottobre 2014, 13:16

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