CATANIA – Una perizia tecnica, per accertare se possa esserci stata un’anomalia del sistema informatico. Per andare in cerca di una falla del sistema. Un “corto circuito” che potrebbe aver in qualche modo nascosto ai medici, condannati per la morte della 32enne Valentina Milluzzo – il 16 ottobre 2016 all’ospedale Cannizzaro – l’infezione in atto.
E’ uno dei punti per cui le difese dei quattro dottori condannati in primo grado – Silvana Campione, Giuseppe Maria Alberto Calvo, Alessandra Coffaro e Vincenzo Filippello – chiedono di riaprire il processo in appello. Valentina morì dopo aver perso, alla 19esima settimana di gravidanza, i suoi gemellini.
La sentenza
I medici condannati hanno preso in primo grado 6 mesi ciascuno, con pena sospesa. Altri tre medici sono stati assolti. Secondo l’accusa i quattro, “in servizio nel reparto e in sala parto”, si sarebbero avvicendati nei turni di guardia tra il 15 e il 16 ottobre di sette anni fa. “In concorso e cooperazione colposa tra loro”, avrebbero provocato la morte di Valentina.
Il ricovero
La giovane era stata ricoverata per minaccia di aborto in gravidanza gemellare bicoriale. La Procura ha contestato ai medici l’omicidio colposo per “imprudenza, negligenza e imperizia”. Una colpa che sarebbe consistita, tecnicamente, “nella mancata attuazione di una terapia antibiotica adeguata”.
Per l’imputazione, sarebbe mancato un “tempestivo riconoscimento della sepsi in atto”, “la raccolta di campioni per esami microbiologici” e una “tempestiva rimozione della fonte dell’infezione: i feti e le placente”. Inoltre, sempre stando all’accusa, sarebbe mancata anche la “somministrazione di emazie durante l’intervento”. Questo, secondo l’accusa, avrebbe “determinato il trasmodare della sepsi in shock settico irreversibile”.
La morte
La conseguenza sarebbe stata una “insufficienza multiorgano e coagulazione intravascolare disseminata”. Valentina sarebbe morta così. In appello dunque la difesa ha chiesto la rinnovazione dell’istruttoria. Le difese infatti sostengono che gli imputati non sapessero dell’infezione. In aula è presente come parte civile la sorella della vittima, assistita dall’avvocato Salvatore Catania Milluzzo. Fonti vicine alla parte civile evidenziano come in primo grado, il tema della mancata presa visione dell’accertamento del 14 ottobre, sarebbe già stato affrontato.
Il verdetto
Dal centro analisi avrebbero spiegato che se un referto ha stampata un’ora, significa che è stato immesso nel sistema ed era visibile a tutti. Una tesi che evidentemente non convince i difensori, che chiedono alla Corte di nominare dei periti. Si tornerà in aula il 17 gennaio prossimo. Quel giorno i giudici emetteranno l’ordinanza per decidere se riaprire il processo o procedere con le conclusioni.