"Quelle carezze prima del dolore | Mio padre, il giudice Scopelliti" - Live Sicilia

“Quelle carezze prima del dolore | Mio padre, il giudice Scopelliti”

Rosanna Scopelliti

Un giudice assassinato. Una svolta nell'inchiesta. Una figlia che parla dei ritorni a casa del papà

L'intervista
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5 min di lettura

Un uomo che torna a casa porta il profumo di sé, accanto agli odori dei luoghi e delle persone della sua giornata. Quel padre portava una borsa con i faldoni del lavoro, le Marlboro rosse in tasca, un cappotto sgualcito, un cappello, talvolta un ombrello con memorie gocciolanti di pioggia e carezze per la figlia. Il ricongiungimento iniziava sul pianerottolo, con l’abbraccio in cui si fondevano la stanchezza di un adulto e la freschezza di una bambina. Poi tutto si scioglieva nella calma di una serata in famiglia.

“Papà dopo cena lavorava, con le carte e io gli stavo accanto, giocando e disegnando. Momenti che non dimenticherò mai”. Così parla Rosanna Scopelliti, figlia del giudice Antonino, assassinato nell’estate del ’91, sottratto ai suoi cari e alla sua vocazione di magistrato gentiluomo. Di recente, una svolta nell’inchiesta grazie a un pentito. L’omicidio, nato da una possibile alleanza mafia-‘ndrangheta, sarebbe stato deciso in un summit nella primavera del 1991 a Trapani con la partecipazione di Matteo Messina Denaro. Il giudice Scopelliti, chiamato a sostenere in Cassazione la pubblica accusa nel maxi-processo contro Cosa nostra, avrebbe agito con la rigorosa umanità di sempre, senza riguardi, né paura. Era un ostacolo da eliminare.

Dopo i primi articoli di giornale sulle indagini riaccese dalle ultime novità, Rosanna Scopelliti, che presiede la fondazione dedicata a suo padre, ha scritto su Facebook: “Prima di uscire per un incontro di lavoro in cui decidere le nuove iniziative della Fondazione, saluto mia figlia. Lei non sa bene perché sono così tra le nuvole oggi. Non sa cosa significhi esattamente per noi la notizia di una svolta cruciale nel lavoro dei magistrati per stabilire la verità sull’uccisione del nonno.  Sa che oggi la mamma è sorridente e vorrebbe continuare a stringerla forte e giocare con lei a ‘facciamo finta’ per tutto il giorno. Mentre vado al mio appuntamento ci penso.  E gioco anche io a ‘facciamo finta’. Facciamo finta che davvero ci siano gli elementi per un nuovo processo Scopelliti. Facciamo finta di arrivare finalmente ad ottenere quella verità e quella giustizia che da anni chiediamo e per cui i magistrati lavorano con tenacia senza mai vacillare”.

Rosanna è a Palermo, in questo venerdì d’incerta primavera. Agenda pienissima. Spicca un incontro con un altro gentiluomo che ha sofferto nella carne l’arroganza del potere mafioso, Giovanni Paparcuri, per una visita al bunkerino del Palazzo di giustizia dove sono state ricostituite le stanze di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino“Sono curiosa – dice – perché papà faceva lunghe telefonate col dottore Falcone, specialmente la sera. Si chiudeva nel suo studio e parlavano. Si stimavano molto”. Il resto è un racconto da non racchiudere in un monumento di marmo.

“Quando papà tornava a casa – dice Rosanna – il rito non cambiava mai. Lo aspettavo sul pianerottolo e ci abbracciavamo. Io sono una persona molto fisica, sentivo il suo odore, lo stringevo… Questo mi manca. Quando fu ucciso, avevo sette anni. Dopo avere mangiato con noi, papà si ritirava per lavorare; dormiva tre ore a notte. Io lo seguivo. Gli stropicciavo i fogli. Oppure scrivevo: ‘che cosa scrivi? Le sentenze, papà…’. Poi mi mettevo sulle sue ginocchia, ero piuttosto casinista e allora lui lo capiva che doveva fermarsi e giocare con me”.

In qualche caso, negli spostamenti a piedi, Rosanna veniva infilata in una valigia. “Ero piccolina – prosegue – papà non temeva nulla per sé, ma per noi sì. E mi metteva dentro una valigia rossa per proteggermi. Dopo la sua morte, nessuno, per anni, ha più toccato le sue cose. Il pacchetto di sigarette sul tavolo, la sua collezione di papere in miniatura come soprammobili, tutto quello che aveva lasciato in ordine. C’era anche un papero vero e si chiamava Piumetta. Mamma l’aveva preso, scambiandolo per un pulcino. Piumetta pensava che io fossi la sua mamma e mi seguiva ovunque e dietro c’era papà che rideva tantissimo nel vederci camminare uno dopo l’altro”.

Tutto finisce, come succede in queste storie, quando qualcuno entra nella tua vita e recide il legame che tiene insieme la felicità. Il 9 agosto del 1991, durante le vacanze estive, con i familiari a casa dai nonni, in una frazione di Villa San Giovanni, due killer attendono sulla strada il giudice e gli sparano con un fucile a pallettoni. Antonino Scopelliti muore sul colpo.

La moglie e la figlia apprendono la notizia dal telegiornale. “Ho avuto una reazione difensiva estrema – racconta Rosanna – qualche ora dopo, sono andata a letto e ho dormito per due giorni e mezzo. Infatti, al funerale non c’ero. Sono cresciuta ribelle, testarda, con tanta rabbia dentro. Mi sono salvata grazie a mamma che è stata insieme madre e padre e ha avuto la pazienza e la dolcezza necessarie. Ho un rapporto strano con il lutto che mi ha cambiato la vita. Sono stata costretta a crescere in fretta e ho imparato ad aiutare, a farmi carico, a prendermi cura a essere responsabile e anche dura per rendere una testimonianza. Perciò, mi viene difficile piangere per la mia storia. Ma le lacrime mi sorprendono sempre per le vicende degli altri. Le ricordo per le stragi di Capaci e di via D’Amelio, non la smettevo più. Mia figlia piccola mi chiede in continuazione di nonno Nino, vuole sapere che fa, perché non c’è. Io le ho spiegato che sono stati i cattivi a ucciderlo, anche se lei non sa cosa significhi davvero uccidere. Le ho dato una foto di papà e lei l’ha messa al capezzale del suo letto. Ci parla, la accarezza. Le stesse carezze che io e papà ci scambiavamo di sera”. Quell’uomo e il suo soprabito non sono più tornati sul pianerottolo degli abbracci e dei ricongiungimenti, ma il suo profumo non è mai andato via.

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