La lavorazione del ferro battuto nel Nisseno è uno dei classici esempi di quella identità siciliana che per le vie e i borghi dell’Isola si incontra in infinite declinazioni di un’unica storia, di un unico spirito siciliano. Una storia che si somiglia di provincia in provincia, di Comune in Comune, e che assume il tono di un dialetto del luogo in cui si trova chi quella storia la racconta. Se quindi è vero che il fabbro era un mestiere presente quasi in ogni municipalità, è vero anche che ci sono luoghi in cui questa professionalità si è manifestata con particolare intensità. In provincia di Caltanissetta questo è accaduto a Mussomeli. All’ombra del castello, generazioni di fabbri, ferrai e maniscalchi hanno creato veri e propri capolavori del ferro battuto.
Il procedimento e la produzione
Per un lungo periodo, il processo tramandato è stato lo stesso degli antichi. Il minerale di ferro veniva riscaldato nella “forgia”, la fucina, fino alla temperatura di 900 gradi centigradi. Ad alimentare la forgia era il carbon fossile, la cui fiamma veniva ravvivata dall’aria proveniente dal mantice. Una volta raggiunta la colorazione arancione, il pezzo di ferro ardente veniva portato sull’incudine. Lì iniziava la lavorazione con mazza e martello.
La gamma degli oggetti realizzati in ferro battuto era molto ampia, dalle inferriate ai carretti siciliani, passando per forbici, lame, coltelli, falcetti, attrezzi per l’agricoltura, ferri di cavallo, chiavi e serrature. Per gli oggetti più piccoli la temperatura veniva regolata con l’acqua.
I protagonisti del ferro battuto
A raccontare parte di questa tradizione è la presidente della Pro Loco di Mussomeli, Zina Falzone. Le storie si avvicendano e si sommano. Salvatore Pennica per esempio era specializzato in chiavi e serrature, costruiva lucchetti a chiusura doppia (una prima interna e un’altra esterna sovrastante). Angelo Ladduca e i suoi figli sono tra gli autori di tante opere in ferro connesse a edifici pubblici, come la croce del campanile della Matrice e la grata che salvaguarda la cassaforte della Cassa rurale e artigiana di San Giuseppe. Portano invece la firma di un altro fabbro, Giuseppe Di Giuseppe, gli storici sportellini che custodivano i contatori dell’Eas, l’Ente acquedotti siciliani.
Fra gli ultimi detentori di questa storia ci sono i Vitrano. Ce lo racconta Guglielmo Vitrano, titolare di un’azienda che rappresenta l’evoluzione di quell’antico mestiere occupandosi della lavorazione di ferro leggero per l’edilizia. “Mio nonno e il mio bisnonno erano costruttori di carretti siciliani – spiega -. Da Palermo si trasferirono a Mussomeli in quanto realtà agricola fiorente. Anche mio padre è stato carradore: partendo dal legno grezzo, dal bronzo e dal ferro creavano tutte le parti meccaniche del carretto”. Gli aneddoti non mancano. “Nell’immediato dopoguerra – dice Guglielmo Vitrano -, non trovando le materie prime, fondevano le monete di Vittorio Emanuele per costruire in fusione le ‘casse di fuso’ dei carretti (costruzioni in ferro battuto e legno intagliato che uniscono l’asse delle ruote al fondo della cassa, ndr)”.
L’evoluzione nei tempi moderni
Poi però i mezzi di locomozione cambiano. “Con la crisi degli anni 60 non si costruivano più i carretti – prosegue Vitrano – e mio padre per sfuggire alla disoccupazione iniziò a creare ringhiere, infissi e oggetti in ferro”. Negli anni Novanta arriva poi la nuova intuizione di fare grondaie, scossaline e, più in generale, di lavorare lamiere sottili. “L’offerta produttiva non soddisfaceva questo tipo di bisogno, infatti siamo stati tra i primi in Sicilia. Da allora facciamo questo lavoro anche grazie a macchinari a controllo numerico”.
In fondo è come se nulla fosse cambiato: le imprese rispondono ai bisogni del mercato e per essere competitive devono cambiare. Un tempo il fabbro lavorava su richieste di un certo tipo; oggi, in un’ottica diversa, lavora in base ad altre. “Facciamo profili per le facciate ventilate, griglie di ventilazione per i tetti ventilati, griglie per le condutture del gas per evitarne accumuli”, fa presente Guglielmo Vitrano.
Per l’imprenditore è ancora corretto parlare di artigianato. “L’impresa è più strutturata rispetto alla bottega. Ma se è vero che l’artigiano è colui che sa fare quella cosa e conosce le varie tecniche dei materiali, allora la mia impresa rimane ‘artigiana’ anche se usa delle macchine. Quello che prima era artigianalità nel saper fare qualcosa, oggi diventa artigianalità nel saper tagliare su misura le soluzioni al cliente. Io mi sento un artigiano perché sono ancora in grado di realizzare un prodotto specifico per i diversi settori dell’edilizia e perché riesco a creare delle rifiniture ad hoc”.
A lezione di ferro battuto
Come spesso accade, un ruolo importante lo ha giocato anche la scuola. È sempre Vitrano a raccontarlo: “Qui vicino, a Campofranco, c’era un Istituto professionale che grazie alla lungimiranza di un preside, l’ingegnere Stefano Di Prima, ha saputo formare una serie di artigiani e industriali. Infatti, fra gli anni Settanta e Ottanta, a Mussomeli c’è stato un fiorire di attività di carpenteria metallica. Eravamo fortissimi nella costruzione di capannoni e ancora oggi ci sono delle belle maestranze che hanno studiato nell’istituto professionale di Campofranco. Bisogna dare merito a quella scuola – aggiunge Vitrano – se questo territorio ha fatto nascere tanti professionisti nella lavorazione del ferro. Se da un lato c’è la mia famiglia che è riuscita a tramandare un mestiere da generazioni, dall’altro lato ci sono maestranze figlie dell’istituto professionale e della sua capacità formativa. Oggi molti allievi sono diventati imprenditori, operai specializzati, altri lavorano al Nord come programmatori di macchine a controllo numerico in aziende metalmeccaniche rinomate”.